Eleonora Ferrari Tassoni
La mia casa
La mia casa può sembrare uno spazio piccolo, rispetto a ciò cui voi siete
abituati. Ma io ci ho messo anni a trovarla: ho impiegato occhi, naso,
bocca e cuore. La volevo così, ne ho provate altre: sfiorato mattoni
levigati dal tempo, annusato legno, storie di cucine, guardato se dai
vetri mi poteva sorridere un albero.
Ma questa, solo questa, è un volume di respiri, accoglienza e affetto
dosati esattamente per potermi adagiare come la piuma che segue la
curva del nido.
La mia casa ha occhi azzurri scintillanti che sono finestre su un mondo
che solo loro possono decidere di mostrare, spigoli che fanno
soggezione e contro i quali sbattere fino a farne parte ma abbracci che
delimitano protezione.
Non è facile al sorriso: è seria e onesta, una casa salda, semplice a base
quadrata, scuri in legno massiccio e porte con grossi catenacci. Sarà
perché la sua costruzione non è stata facile: ha visto alti e bassi, forti
scosse e sbagli di previsione. Si è dovuta proteggere e ha protetto.
Non è una casa colorata, meglio: ha i colori delle persone che la vivono
e l’hanno vissuta.
Pochi colori, un po’ usurati: il bianco è lievemente grigio, segno di mani
passate, il rosso spento, quasi a non voler dare nell’occhio è colore della
nostra terra politica e lavorata.
E’ una casa di suoni, di percussioni e fiati: contiene balli scatenati e urla
rabbiose, ma si riposa sulle note di voci nere.
E’ la mia casa, la amo e spesso non glielo dico: non ho voluto tende,
cordoni, tovaglie di lusso per lei. Ho voluto che fosse ciò che è.
E’ un posto da cui partire, a volte da cui scappare se i muri diventano
troppo stretti e pesanti. Ma è il posto in cui voglio sempre tornare,
perché alla fine il caldo che c’è lì non c’è da nessuna altra parte.
Sono il suo rampicante, quello che copre l’angolo al sole, gode della sua
forza e le regala fiori. Mi faccio ammirare, così ben attaccato, ma in
realtà lo splendore è lei, nei suoi difetti e nella sua storia.