Francesco Rossetti
Non so se mi capite
Mi ricordo di questo scrittore nato in Africa, dal forte accento emiliano,
arrivato in Italia che aveva un anno. Andammo fino a Bologna per
conoscerlo. Prendemmo un caffè in piazza Verdi. Mi parve
affettatissimo, come se contasse su un suo presunto carisma. Il suo
ripetuto intercalare "non so se mi capite" mi faceva ridere.
Allora stavo smettendo con la professione dell'attore, avevo molto
tempo libero e mi buttai nello studio del multiculturalismo, nelle sue
espressioni artistiche. Chissà, magari pensavo di poter trovare un lavoro
in quel settore lì. Ricordo lunghe chiacchierate con addetti alla
promozione di iniziative socioculturali rivolte agli stranieri. La
sensazione di bla bla bla era consistente.
Ammetto di esser stato sempre avaro di parole, ma c'è tanta gente in
giro che parla tanto per parlare. Automatismi logorroici, senza mai un
guizzo, una sorpresa. Spesso questa gente parla e io annuisco,
pensando a tutt'altro.
A me invece restano impresse le chiacchierate che si sviluppano mentre
fai qualcos'altro. Mentre predisponi la scenografia di uno spettacolo,
oppure quando ti sposti: in macchina, a piedi, in autobus. Del resto è in
movimento che i miei pensieri fluiscono rigogliosi. La cosa più facile da
fare al mondo: camminare da soli. Chi vuoi che ti disturbi?
La sera rientro a casa, appoggio la borsa ed è facile che esca subito per
rilassarmi. Mi piacerebbe farlo in compagnia, qualche volta. A volte
cammino e mi accorgo che non ho chiuso la lampo dei pantaloni.
Di solito non passa più di mezzora che salgo di nuovo le scale. Apro il
computer per vedere se sono connesso. Il più delle volte rimango a
bocca asciutta. Quando è collegato, invece, vado su Facebook e mi
perdo nella girandola di autoannunci dal mondo degli amici.
È facile che si mettano in moto pensieri impegnativi. Leggo il post di un
amico con cui sono cresciuto nell'adolescenza. Con cui ho cominciato a
fare teatro. Una compagnia di amici, che ora, dal mio punto di vista, non
sono più amici, ma lontani conoscenti. Amici di adolescenza... Quelli
d'infanzia addirittura li ho persi di vista prestissimo. Però ho un
pensiero affettuoso per loro, spero e voglio credere ricambiato.
Ogni tanto, alla sera, mi attivo per le pulizie. Spazzo, passo lo straccio,
apro le finestre per far asciugare, nell'aria aleggia quell'odore di
candeggina, il pavimento bagnato riflette alla luce delle lampadine
alogene. Dal balcone arrivano le voci della pizzeria salentina, dove non
acquisto una pizza dalla primavera del 2012.
In camera da letto tengo sempre qualche vestito sparso sul tappeto e
così anche le scarpe. Mi rendo conto che in questo periodo la qualità
dell'aria nella camera è compromessa da una canfora fortissima,
probabilmente perfino tossica, che ho sparso nei vari angoli
dell'armadio e della cassettiera. Però ci tengo a far sapere alle tarme che
non è aria, nemmeno per loro.
Se è una di quelle frequenti sere che so io, quando il sonno non arriva,
per contrastare l'inquietudine vado a mangiare. Apro il frigo a più
riprese, ma ho solo verdura da far cotta: cavolfiore, broccoli, forse
zucchine. Finisce che mi faccio molte zuppe con i biscotti secchi. Spesso
sto seduto male, se fossi in compagnia sarei più composto. Tengo le
gambe accavallate in obliquo, succede che un piede si addormenti, poi
devo massaggiarlo per farlo riprendere.
Per addormentarmi devo immaginare di aver trovato al buio un rifugio
di fortuna, un giaciglio improvvisato da prendere come oro colato in
una notte da fuggiasco. In stato di semiveglia armeggio con le mani il
cuscino, cercando di piegarlo nel modo più comodo alle esigenze della
mia testa. Per un po’ è tutto un rivoltarsi agitato da strani pensieri.
Cambio spesso posizione: di lato, pancia in su, pancia in sotto. Alla fine
mi addormento obliquo sul letto matrimoniale. Al mattino mi capita di
anticipare il suono della sveglia. Mi ritrovo il collo indolenzito per tutto
il lavorio notturno e il pisello rannicchiato dentro alle mutande. E il sole
che filtra abbondante dalle serrande.
Vado in bagno, i vestiti sparsi sul tappeto, la polvere splendente al taglio
della luce. Piscio sul lavandino. Mi sciacquo la faccia, trovo
l’asciugamano a occhi chiusi, prendo un sorso di collutorio. Mentre
quel liquido verdastro disinfetta le mucose della bocca, valuto lo stato
della barba. Se è lunga giusto di un paio di giorni, la lascio. Torno in
camera e c’è silenzio. I doppi vetri impediscono ai rumori esterni di
entrare. Non sempre, ripeto: quando litigano, quelli della pizzeria di
fronte si fanno sentire comunque. Dall'armadio tiro fuori pantaloni
dimenticati che non indosso da tempo. Mi accorgo tardi che anche
quelli hanno la cerniera che non sta su.
Torno in cucina, spremuta di arance e una tazza di caffè, che vuol dire
acqua calda e Nescafé. Biscotti secchi. Mi dico sempre che dovrei
mangiar piano, ma da solo mi sembrerei un po' stupido. Invece, se fai
colazione con qualcuno, allora sì, viene più facile.
Metto addosso solo una camicia perché la giornata si annuncia tiepida.
Le scarpe le allaccio con il doppio nodo. Al momento di uscire, mi
chiedo se dimentico qualcosa. A volte è il telefono, appoggiato in
silenzioso da qualche parte. Respiro.
Da soli si può indugiare sul respiro. Non ci si sente stupidi. Apro la
porta, richiudo, due giri di chiave. Il vicino ha lasciato le buste dei rifiuti
davanti alla porta. Davanti a me tre rampe di scale, tutte in discesa. Le
prendo di corsa, come ho sempre fatto, fin da bambino.