Lamberto Dolce
Sidelki
... lei camminava senza paura nel vuoto che avvolgeva i tetti e le case.
Pensava di trovarsi più a suo agio in quell’esile spazio tra nembi e tetti
piuttosto che dentro casa. Bello sentirsi senza pareti, tetto, pavimenti
che scaldano i pensieri, l’aria è una casa trasparente.
Irina, nel ricordo, metteva la stessa attenzione che doveva avere mentre
camminava sul cavo di ferro; sembrava che per lei, andare da un tetto a
un altro, fosse come entrare e uscire da stanze e porte. Da un tetto a un
altro, da un campanile a una cupola, strisciava leggera, prima uno poi
l’altro, i suoi piedi sul cavo teso e l’asta lunga, ben stretta tra le mani. La
sentiva la folla di sotto e, con uno sguardo sfuggente, a volte captava
tanti occhi spalancati: cade, ci arriva, forse, però, che coraggio, col
cavolo lo faccio io. Erano, quelle parole, in cirillico, la lingua di casa sua.
Parole che sentiva perché aspettava che, una di quelle sere, le si
aprissero le ali.
Ha poi ricordato cose di terra: un figlio, un marito sempre più
indifferente, casa sua abbandonata in pieno inverno dopo aver salutato
il figlio già diciottenne e ancora studente. Il marito non lo saluta
nemmeno nei pensieri. Irina parte meravigliandosi di non sentire il
bisogno di piangere. Di morire sì. Non sa se e quando torna. Chi la
porta per tre notti e quattro giorni le prende il passaporto appena
giunta in Italia. E lei si sente pure fortunata ad aver avuto quarantadue
anni perché, se fosse stata più giovane, oltre al passaporto sparito,
sarebbe finita su un marciapiede con le altre cinque compagne di
viaggio che, tutte insieme, non ne faranno cento di anni.
In Calabria Irina diventa schiava di una famiglia che ha la vecchia che
non muore mai. Ci vuole una che la imbocchi, la lavi e le controlli le
terapie. Una come te a servizio cercavamo, le dice una delle figlie della
vecchia. Non ricorda di essere mai uscita da quella casa se non, una
volta la settimana, per fare la spesa. Dopo due anni la vecchia muore e
lei ha, non sa come, il passaporto. Chi glielo ridà forse immagina che se
ne torni a casa, Irina invece fa un biglietto per il primo treno in
partenza, diretto a una città del nord. Così arriva a Bologna e si accorge
che il caldo è più umido che laggiù al sud. Dopo un mese in quella città
dove dorme, mangia e si lava in una struttura di accoglienza, le telefona
sua cugina da Modena. Irina la raggiunge, anche perché non le bastano i
soldi che le sono rimasti per tornare in Russia. La cugina le propone di
sostituirla per un mese: tanto la vecchia ne ha per poco, chissà se la
ritrovo al mio ritorno. Non è più tornata, morta nell’incidente del suo
pulmino, a metà strada, prima di arrivare dove era nata. La dedizione di
Irina piace ai figli della vecchia, così firma il primo contratto di lavoro in
vita sua. Uno dei figli le dice: qua ti sentirai come a casa tua. Lei sorride
senza un commento e pensa a quanto stava da cani a casa sua. Dopo
pochi mesi di lavoro ha già le idee chiare sul suo futuro: reclusa senza
colpe in casa, con una demente di novant’anni che passa le sue giornate
dal letto alla carrozzina.
Estate e inverno senza mai mettere il naso fuori, il terzo piano senza
ascensore paralizza anche Irina tra quelle quattro mura. Tranne la festa
e una mezza giornata a settimana, sempre in servizio per 24 ore. La
differenza tra questa casa e quella in Calabria la sente sempre meno.
Sono schiava anche qui? si chiede sempre più spesso. La domanda le
tormenta i pensieri anche quando, in estate alla coop, prende fresco nel
suo turno di riposo. A volte incontra un paio di connazionali con cui
condividere il panorama della gente a passeggio e dei carrelli colmi. Lei
ascolta, distratta, la lingua della sua terra e, sempre più spesso, ricorda
quando andava da un tetto all’altro sul cavo di ferro.
Dopo quattro anni ritorna a casa. Finalmente due mesi di ferie, pensa
soddisfatta Irina per tutto il viaggio. Il figlio si sta laureando e le sembra
più magro di come compariva in chat. Papà? sono due anni che non ne
so niente, le dice. Il giorno dopo va via una settimana con la sua
ragazza. Irina lo saluta e, rientrata in casa, sola, si rende conto che lì ci
ha abitato per dodici anni. Tre giorni che è tornata e non la sente più
sua. E suo figlio, quanto sono lontani i tempi che le diceva: dove sei?
Quando torni mamma?
Lo impara il giorno dopo, quando prova a cercarla a casa sua. Diana, la
sua grande amica d’infanzia è ricoverata in clinica perché depressa. Non
mangiava più, nemmeno alla figlia pensava, le racconta la madre di
Diana mentre versa il tè a Irina. Poi commossa le dà l’indirizzo della
clinica dicendole: è un manicomio, ci finiscono in tante di quelle che,
come voi, vanno fin là a lavorare. La psichiatra, sai, me l’ha detto il
nome di quella malattia: sindrome Italia o di Sidelki. Rimani qua, anche
tu vuoi fare questa fine senza senso? Il mattino dopo, al risveglio, Irina
crede di aver sognato la sua fine senza senso. Ma non ne ricorda più
niente.
Dopo il quinto giorno decide di anticipare il ritorno in Italia. Il figlio al
telefono: come credi, anche se un po’ mi spiace. Ci sentiamo via chat,
baci. Da Diana non vuole andare, la rassegnata tristezza di sua madre se
la sente tutta addosso. Nemmeno al cimitero dai suoi va. L’ultima sera,
davanti al telegiornale del suo paese si sente estranea come quando
ascolta, in lingua diversa, quello italiano.
La corriera la prende in piazza. Prima di salire un ultimo sguardo ai tetti
che la circondano e al vuoto che li separa, dove un tempo lei
camminava sospesa sul cavo.
Arrivata in Italia, a casa dalla vecchia non può restare, la sostituta ha
ancora quaranta giorni di lavoro. Sono le cinque di un pomeriggio di
metà agosto, il silenzio è ancora più profondo per via del caldo. Ripensa
alle piogge di tre giorni prima, lassù, al confine con la Polonia mentre
vede la sua ombra sul marciapiede.
La mattina, dopo la notte in albergo, sente che è stata la prima volta che
ha dormito senza pensare a qualcuno. Ha dormito perché stanca. Stanca
un mondo.
Dorme altre notti in quella sterile stanza d’albergo da due stelle, anche
perché la sua vecchia in quei giorni muore: contratto finito, sfratto
immediato. Comunque ha un po’ di risparmi e il permesso di soggiorno
appena rinnovato.
Il silenzio che ora l’accoglie al mattino le piace perché ha il suono della
calma e della pausa. La luce calda entra dalla finestra e l’invita a
improvvisarsi ancora equilibrista e, con venti chili di più, mima se stessa
quando camminava sul cavo di ferro. Percorre una linea immaginaria, da
parete a parete. Così fa a ogni risveglio, prima di scendere per il
cappuccino. Si sente poco normale ma non riesce a farne a meno di
quella passeggiata mattutina, in quella stanza che finalmente la fa sentire
a casa.