Mau MacFerrin
Teng teng tung!

Ha decimato intere generazioni e i suoi effetti catastrofici non
accennano a placarsi: può essere causa di insonnia, disordini alimentari,
disturbi intestinali, indolenza, trasandatezza, sbalzi d'umore,
depressione, aggressività, paranoia e altre psicosi. No, mica la droga: la
televisione, dico. Non la guardo più da anni e vivo meglio, più sereno.
E non mi drogo più di prima. Ero arrivato al punto di non comprendere
più nulla, di quel guazzabuglio informe, trasmesso nelle pause fra i
dannati consigli per gli acquisti e la maledetta televendita. La televisione
però non è stata sempre così brutta, anzi: mi ha anche formato, specie
durante l'infanzia. Era fatta bene, la tivù dei ragazzi. Ricordo ancora un
bel programma dedicato all'avventura: la sigla era un brano dei Procol Harum,
un pezzo struggente che parla di un marinaio ma anche di me
che partivo lontano, pur non capendone una parola. Keith Emerson,
invece, commentava con un ragtime saltellante e pirotecnico i titoli di
un rotocalco che io, ragazzino attratto dall'universo adulto, potevo solo
sbirciare da dietro la porta. E le inchieste di Marrazzo sui bambini
di Napoli, i saluti di Ruggero Orlando da New York, gli approfondimenti,
gli sceneggiati... Una volta ne vidi uno dedicato alla Rosa Bianca,
un gruppo di studenti cristiani che diffondevano scritti antifascisti
a Monaco di Baviera. Il problema è che avevo sette anni ed ero parecchio
impressionabile, quasi come oggi. Quei giovani vennero arrestati dalla
Gestapo nelle loro aule di scuola, portati via brutalmente e decapitati,
così, come si faceva nel 1943. Per qualche giorno ebbi paura di andare a
scuola, temendo che i tedeschi facessero irruzione in classe per
tradurmi alla Kommandantur (che si traduce con “Comando”).
Riuscirò mai a ripulire questo portale di sasso dalle sei mani di vernice
che ho potuto contare portandole lentamente alla luce, picchiettando il
serizzo con questa vecchia punta di piccozza svizzera? Giallo zafferano,
verde provenzale, azzurrino carta da zucchero, verdino, rosso pompeiano,
rosso ideale: perché tutti questi strati? Chi ha cominciato
questo gioco al massacro cromatico? Tic tic tic. Teng teng tung!
Per oggi lascio perdere, mi duole ancora il braccio. Quanto lavoro,
per "sistemare l'indispensabile" prima di trasferirci in questa casa.
Siamo partiti chiudendo le fessure di due dita fra le ciclopiche
lastre di sasso del terrazzo, poi abbiamo smantellato le cantinelle
della sala – il controsoffitto di legno e calce di una volta, un'impresa!
– che nascondevano una travatura di rovere antico e un plafone di larice ambrato;
è seguita la coibentazione del sottotetto – un ampio impiantito di
tavole grezze, sormontato da una travatura imponente che regge tonnellate
di lastre di beola chiamate piode – con lana di roccia e pannelli osb da due;
quindi la demolizione del bagno di sopra – mazzate a tutto braccio,
altro che tic tic tic... – mentre quello sotto, più recente, era già in ordine
(e pensare che una volta non c'erano bagni interni qui... ce n'era uno esterno,
un bugigattolo arcaico detto cagau, riscaldato solo dalle chiappe di
chissà quante generazioni); e le finestre, le porte, la carriola, il buco
della scala interna – perché per passare da un piano all'altro c'era solo
quella esterna, e via andare... –, la porta a vetri colorati sul terrazzo,
e questo portale da sverniciare. Tic tic tic. Teng teng tung ziocambogia!
La nostra casetta in affitto è diventata davvero troppo piccola per quattro,
poi cade a piccoli pezzi, come se non ci sopportasse più.
La casetta che aveva accolto un amore stupefacente, un amore a dismisura e
due nascite, e ancora amore fino all'ultimo. Ma è piccolina, non possiamo
rimanere oltre o sarà lei a espellere noi.
E la casa "nuova" – avrà quattro secoli – cosa accoglierà? Una coppia  nel suo decennale,
due bambine di otto e cinque anni, forse un gattino.
La televisione no. Dobbiamo farla bella questa casa: sarà qui che torneremo
la sera dopo il lavoro, dopo aver perso il lavoro, dopo un lutto annunciato.
Sarà qui che dovremo smaltire la collera, qui che vedremo partire le ragazze
verso altre case. Sarà qui che dovremo resistere all'età, alle perdite,
alla fine del mondo. Dovrà essere bella e accogliente, calda e misericordiosa
questa casa, per quando le bambine di oggi torneranno con quelle di domani.
La casa di fronte doveva essere particolarmente calda, la notte in cui
venne devastata da un incendio, qualche anno fa; il tubo di acciaio,
inserito per legge nella canna fumaria, non era abbastanza lungo e provocò
un disastro a cui il proprietario scampò davvero per un batter d'occhio.
Sulla stessa mulattiera, qualche metro più in là, giace la carcassa di un
secondo edificio andato a fuoco.
Questa mattina, la signora Silvana – la nuova vicina – mi ha raccontato
che lei, che è del 1942, non ricorda nulla, ma sa che nel 1943 quel posto,
che era un fienile, aveva ospitato tre partigiani.
Un giorno, i tre uomini – un anarchico, suo figlio e uno slavo – tesero
un agguato a una camionetta tedesca transitante oltre il ponte sulla Toce,
ammazzando un soldato e mancandone altri due. Il giorno dopo, puntuali come la morte,
le SS occuparono il paesino e, informate dall'infame del villaggio,
lessero ad alta voce il nome di chi stavano cercando, per aver offerto riparo
a tre Banditen. Diedero quindi alle fiamme la costruzione sulla mulattiera
e prelevarono Giuseppe Ambrosini, contadino, per condurlo al Comando.
In realtà, gli spararono un colpo alla nuca poco lontano, e lo gettarono
in un dirupo, come si faceva nel 1943. Martire della Resistenza, il povero Giuseppe Ambrosini;
portato via con la violenza proprio da questa nostra nuova dimora, che era casa sua.
Teng teng tung!


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