Simonetta Malinverno
Non solo casa di muro
Carovana
Una casa. Tutto comincia dalla mia casa, in cui io abito, dove sono nata
e cresciuta, e dove vengo spesso criticata, discriminata, perché no, a
volte anche emarginata.
Io vivevo con la mia famiglia, mamma, papà e cinque sorelle, in una casa
di poco più di 7 metri per 3, ma confortevole, comoda, perché non le
mancava niente. La mia casa si poteva spostare di città in città. Un
tempo si poteva parcheggiare ovunque, in mezzo al prato, nei parchi,
vicino alle chiese, ovunque ci portava il nostro lavoro di giostrai. Non
c’erano limiti, si conosceva gente, si cambiava scuola spesso e si
facevano amicizie.
Amavo quella vita e tutto quello che circondava la mia casa. Era una casa
speciale, ero felice quando si girava in estate, non riuscivo a vedere altra
vita. Era bello viaggiare con la mia carovana trainata da un camion con
l’insegna davanti con scritto Luna Park. Le persone sorridevano quando
ci vedevano arrivare. Era una festa per tutti. All’epoca condividevamo
con il gagio, si scherzava e rideva. La vita era più semplice e stavamo
bene tutti, era una vita dignitosa.
Vedevo il mio futuro come una giostraia, con figli e una bella carovana;
trent’anni passati fra le pareti piccoline della mia casa con le ruote, così
piccola ma per me così tanto grande e importante, perché condividevo
quei piccoli spazi con la mia famiglia. Mi sentivo sicura la vita.
Era la vita perfetta: ci si spostava, si montava la giostra a volte anche solo
per un giorno e si ripartiva per poi subito montarsi la giostra da un’altra
parte. La mia casa era sempre pronta a viaggiare. Più bello di così!
Ricordo le mie sorelle più grandi, una volta chiuso il mestiere alla sera,
si trovavano con tutta la compagnia per andare a divertirsi con le
ragazze e i ragazzi del luna park, tante carovane messe insieme e lo
stesso lavoro per tutti.
La carovana, la campina, l’unica cosa che mi faceva sentire normale e
ancora sinta. La carovana rappresenta il viaggio della mia vita. La vita è
un viaggio che non rappresenta solo noi Sinti ma anche i gagi. Tutti
viaggiamo in modo diverso.
Piano piano la nostra piccola comunità ha perso il suo valore, derubata
della dignità e bruciata da chi non ci conosce e ci giudica.
Campo
Non conoscevo fino in fondo forse il disagio e la vita difficile che i miei
genitori vivevano poi, all’improvviso, ecco il fallimento lavorativo. Le
spese e la vita da giostraio costavano più di quello che si guadagnava.
Piano piano la mia carovana trainata dal grande camion, la mia casa,
faceva sempre meno viaggi fino a che non ha smesso di funzionare,
cambiando così in modo definitivo il ciclo della mia vita: destinazione
campo nomadi fisso. La mia carovana invecchiava, le ruote sempre più
arrugginite, la giostra venduta e il camion pure, e la vita da campo.
Vivere la comunità non era semplice: un conto era viverci 3 o 4 mesi
all’anno, un altro conto era viverci 12 mesi su 12.
Crescendo notai ben presto le differenze fra di noi al campo, e fra noi e
il mondo esterno che ci faceva sentire diversi. Erano troppi i giostrai
campisti e le differenze sociali erano troppo forti. I disagi iniziarono fin
da subito: convivenze forzate, sovraffollamento di carovane strette in
piccoli spazi che non bastavano, non esisteva privacy, abitudini diverse,
conflitti, non era facile per nessuno, si viveva porta a porta...
pensandoci ora non era il massimo. Cose che facevano quasi paura, ma
io mi abituai presto. Piano piano mi resi conto che la vita da campista
non era male, eravamo in tanti, gli amici non mancavano mai, ci si
divertiva a stare insieme agli altri, si ballava fuori casa con la musica
della macchina accesa. Mi abituai a quella vita, non vedevo altro che
divertimento, feste di Natale dentro un tendone grande dove grandi e
piccoli si divertivano e basta. L’unica responsabilità che avevo era pulire
casa, andare a scuola e portare onore dentro la casa e mantenere buoni
principi riguardo la nostra cultura. La mia casa era la casa di tutti,
condividevo all’interno della mia casa e facevo lo stesso a casa degli altri.
Io a volte mangiavo, dormivo, mi vestivo a casa dei miei cugini e loro
facevano lo stesso da me, non c’era nulla di male, non era per noi
maleducazione se aprivo il frigo in casa dei miei zii, non era
maleducazione se mangiavo, bevevo, mi vestivo e stavamo in piedi fino a
notte fonda con le mie cugine facendo lo spuntino di mezzanotte tutte
insieme ridendo come delle matte. La mia casa era la nostra casa, la casa
di tutti quelli che volevano condividere la nostra ospitalità. Quando dico
casa, la prima cosa che mi viene in mente è famiglia, quindi all’interno
della mia casa non si chiedeva permesso, non si dava il buongiorno, non
esistevano confini, la famiglia era anche allargata.
Eravamo semplicemente abituati così e c’era amore nelle cose che si
facevano e rispetto che non mancava mai.
Casa di muro
Un problema di cui mi sono resa conto più tardi, con la mia crescita, e
piano piano ho maturato dentro di me riguardo alle mie usanze e stile
di vita, è che ai gagi non piace proprio la mia casa, la mia comunità, la
mia cultura e tutto quello che ne fa parte, che ai gagi non gli va il campo
nomadi, il villaggio fatto di carovane, roulotte, casette mobili.
Proprio questo ha fatto scatenare dentro di me una rabbia incontrollata,
non sapendo come potermi riscattare, nutrendo la stessa paura e
insicurezza, decisi di uscire dal campo, che era anche casa.
Avevo due figli ora e il ghetto in cui vivevo non lo vedevo più bello
come prima. Essere Sinti con la carovana ma senza le giostre, essere
solo campista, non valeva più la pena all’interno del campo. Ora come
allora, la gente ti giudica, ti emargina e questo mi fa soffrire. Il ghetto
costruito per noi non ci aiuta a crescere, ci isola Non trovi lavoro, non si
riesce a vedere il futuro, non te ne danno la possibilità. Anche se ci fa
stare male, ci nascondiamo, e non rivelare la nostra identità, che
viviamo come un handicap, ci fa sembrare lebbrosi agli occhi delle
persone e chiude il nostro bellissimo mondo, limitando la nostra vita.
Così, per necessità, e non perché lo volessi, decisi di conoscere di più il
mondo dei gagi anche se mi spaventava e avevo molti pregiudizi pure
io, pregiudizi che in qualche modo erano uguali a quelli dei gagi su noi
Sinti. Lasciare la mia vita per affrontarne un’altra di cui non conoscevo
niente, non era quello che avrei voluto, ma per amore dei miei figli era
in quel momento forse la scelta giusta. Lasciai la mia carovana, la mia
casa, la mia vita e l’interno del campo.
La differenza era tantissima: la mia casa non aveva più ruote ma era fatta
di muri grandi che il terremoto avrebbe potuto devastare e che
avrebbero potuto schiacciarmi. Era al piano terra di una palazzina, le
finestre con le sbarre, mi sentivo in prigione, mi soffocava l’ambiente.
Tenevo le finestre aperte d’estate e la porta aperta per avere un contatto
sia con la terra, sia con l’esterno. Questa era la libertà che più mi
mancava. Nella mia casa di muro convivevo con persone che non
conoscevo e di cui diffidavo. Un anno dentro a quella casa ho passato e
non sono riuscita a fare amicizia con nessuno; mi era difficile anche dare
un semplice saluto, non volevo svelare che ero sinta, ma negarlo mi
faceva stare male quindi mi emarginavo per paura. Dal 2002 fino ad ora
ho cambiato 4 appartamenti, nel frattempo non sono mai stata capace di
trovare stabilità. Col tempo, mi sono abituata a stare nella casa fatta di
muro di 80 metri quadri, in centro città. Mi sono abituata a stare da sola
e a vivere pienamente la mia famiglia, io, mio marito e i miei figli in
tranquillità, un altro modo di vivere. Pian piano sono diventata un po’
più sicura di me e meno impaurita; ero riuscita a trovare un equilibrio. I
miei figli, a differenza di me, erano abituati a stare in appartamento. Per
non fare dimenticare ai miei figli che sono sinta e che anche loro lo
sono, avevo anche una roulotte nel campo e quando avevo il desiderio
di ritrovare me stessa ritornavo nella mia casa con le rotelle, e questo ai
miei figli piaceva. A me piaceva andare al campo a dormire nella
roulotte. Era per noi come avere una casa in campagna, mangiare fuori,
all’aperto, con la piscina in estate, era meglio che andare in vacanza per
i miei figli. In estate, una volta finito di mangiare, si pulisce la roulotte,
con l’odore di detersivo che esce dalle finestre, mentre in famiglia si
guarda la tv fuori. Era bellissimo tornare al campo e stare insieme per
una bella grigliata. Un metodo tutto studiato per abituare i miei figli
anche alla vita del campo, in roulotte, e per non farli crescere 100%
gagi. Io sono una sinta orgogliosa di esserlo, idem i miei figli, e non
condanno il campo nomadi e la vita del campo, ma quello che i gagi
pensano di chi vive dentro un campo nomadi, nelle carovane, cosa che
non ci permette di vivere senza paura la nostra vita, e che ci fa sentire
sempre più costretti a diventare diversi perché come siamo non
piacciamo a nessuno, facendoci così perdere le nostre usanze, la nostra
cultura.
Anche la casa dei nostri sogni può diventare per noi una maledizione,
perché fatta di discriminazione, emarginazione, etichette.
Casetta mobile
La mia vita oggi sembra ancora non aver trovato destinazione, continuo
a sentirmi nomade anche se ormai ho smesso di girare con le giostre.
Anche se sono italiana, modenese, da sempre, continuo a sentirmi
straniera nella mia città e nelle mie case, così come tutta la mia
generazione che abita qui. Ho provato a seguire mille strade, ho perso la
mia casa di muro e vivo da tre mesi nel campo perché in emergenza
abitativa, perdendo di nuovo dignità, e al posto della carovana ho una
casetta mobile e sono molto preoccupata per il domani.
Prendendo abitudini diverse ho perso un pezzo della mia vita per poi
ritrovarlo cambiato. All’interno del campo ora mi sento diversa. Non
riesco più a immaginare la mia vita qui: le cose sono cambiate, io sono
cambiata, il campo è grande ma come famiglia riesco a vedere solo la
mia di famiglia, cioè io, i miei figli, mio marito, le mie sorelle, i miei
cognati e nipoti, per un totale di 40 persone. Tutti gli altri sono in più, e
la convivenza con quelli che sono di troppo è per me motivo di
malessere. Il mio obiettivo ora è uno. Per convenienza soltanto, sarei
stata nella casa di muro, ma non mi voglio più sentire come mi sento
adesso, con un piede dentro e uno fuori: una casa è per sempre.
La mia casetta mobile ora la vedo piccola, lunga 10 metri per 3, la sento
scomoda, il bagno stretto, non si ha tutto in un piccolo spazio, gli
armadi non bastano e quando qualcuno mi viene a trovare mi sento già
sovraffollata, mi sento soffocare. Piango, mi sento cambiata, non sono
più io, mi dispiace ma è difficile per me il rientro alla casa delle mie
origini, non mi piace più niente. L’unica cosa che mi rasserena sono i
visi dei miei famigliari e il loro calore. Ma ora esistono confini dentro di
me. Mi manca la mia casa in centro, i miei spazi, la mia comodità e
privacy, e anche i vicini con cui litigavo spesso. Lì vivevo fra la gente, i
negozi vicini, e mi manca il contatto col cuore della città.
La cosa è fresca, la ferita è aperta e fa male. I miei famigliari mi chiedono
perché mi fa soffrire così: ci sono nata lì, nel campo e nelle carovane,
quella era la mia casa. Cerco di spiegare ma mi è difficile e i miei
capiscono, ma fino a un certo punto. A volte sono criticata e fraintesa,
tanto che anche io mi faccio delle domande, mi sento smarrita e
schiacciata. Molto spesso mi sento appesantita da parenti che non mi
comprendono: io non sono diventata gagia, sono sempre quella sinta
che ama la sua famiglia, la sua etnia e lotta ogni giorno contro
pregiudizi, ingiurie e disuguaglianze, abusi di potere e discriminazione,
e lo fa in tutti i modi che le si presentano.
Se non fossi partita, con i bagagli e le mie gambe che non hanno ruote,
per affrontare la vita fuori dal campo, non avrei capito determinate cose.
La vita sinta è una vita penalizzata da tutti i punti di vista, abitativi e
sociali. I Sinti sono incompresi e diffamati, umiliati e delusi. Noi Sinti
non siamo liberi come pensiamo.
Vivere nei campi non dà privilegi e noi, per colpe che a volte non
abbiamo, facciamo passi che forse era meglio guardare da lontano e non
conoscere per la sofferenza che hanno portato.
Casa
17 anni passati in appartamento, la casa di muro, la casa in cui mi sono
abituata a vivere, la casa che pensavo fosse per sempre invece, ora che
non c’è più, mi sento più nomade di prima e il peggio è che non so
quale sia la mia destinazione perché anche nel campo ora sono precaria,
ho un contratto di un anno poi dovrò trovare una soluzione per me e
per la mia famiglia. Una cosa è sicura: dovrò dimenticare l’idea di
abitare dentro una casa fatta di muro perché non mi sentirei più stabile
e tutto quello che ormai non è più stabile mi crea ansia e paura. Non mi
devo più sentire precaria all’interno della mia casa. Ce l’ho una casa o
no? Non lo so più. Non mi voglio più trovare al punto di partenza, ho
bisogno di sentirmi a casa, con la mia famiglia. Devo costruire un
progetto adatto a quelle che sono le mie esigenze economiche e di vita,
la via di mezzo che mi aiuti a riequilibrare la mia vita per sentirmi libera
e non in balia di tante strade che mi sono state messe davanti e poi, per
un motivo o per l’altro, bloccata, come nel gioco dell’oca, rimandata
indietro, chiedendomi se troverò mai la strada giusta, fermando quella
carovana stavolta trainata da me, non dal camion. Gli anni passano e i
pesi si iniziano a sentire, le ruote, le mie gambe, si arrugginiscono e io
mi fermo come la mia carovana quando abbiamo smesso di girare,
aspettando i miei, che possano trovare soluzioni per me. Mi consola il
fatto che non sono su una strada e la mia casetta mobile c’è. Ritornare
alle origini non è facile ma per il momento va bene. Mi riadatterò, sono
sempre sinta e ho già un altro progetto. Vado avanti e mi porto dietro la
mia casa e percorrerò la mia strada e io e mio marito riusciremo a
ottenere quello che vogliamo. Stavolta abbiamo ben chiaro quello che
vogliamo fare: un terreno in affitto, 6 prefabbricati dove vivere in
comodità con i miei figli vicino, in campagna sì, ma non lontano dalla
città. Una volta raggiunto questo obiettivo, potrò dire di sentirmi a casa,
una casa sicura e stabile e per sempre.
E per ora vorrei pensarla così, che riusciremo con l’aiuto delle nostre
braccia e gambe. A noi le cose non sono mai venute facili. Dal 2002 al
2017 abbiamo cambiato 4 case di muro e 2 casette mobili. Già nel 2007
ho lasciato il mio appartamento per andare a finire di nuovo nel campo,
e nel 2010 sono tornata in appartamento fino al rientro al campo pochi
mesi fa.
Le abitudini cambiano: sono sicura che se continuerò a stare nel campo
mi sarà sempre più difficile intraprendere altri sistemi di vita.
Continuerò ad avere una casa fatta di legno, ma fuori dal campo, in un
terreno con la mia famiglia, con una nuova denominazione, da micro
area a gestione famigliare. Solo quando questo si realizzerà mi sentirò
davvero a casa mia, e ancora me stessa, con la mia vera identità, per ora
non so ancora cosa succederà.
Se rimango qui, nella mia casa al campo, fra non molto la mia casa
diventerà la casa di tutti, farò fatica a partire di nuovo, ne sentirò ancora
la mancanza, lascerò di nuovo i miei affetti famigliari e ne soffrirò per
l’ennesima volta per poi ripetere ancora, nuova corsa nuovo giro, come
si dice nella giostra, parole che si usano per fermare la giostra in corsa.
Comunità
La comunità è la mia casa, la mia famiglia allargata, è casa, condivisione,
amore e valori. Con la mia famiglia mi sento a casa, ma non all’interno
di un campo nomadi sovraffollato. I tempi sono cambiati oggi per quelli
che vivono fissi nel campo, la casa di tutti: nessuno vive più bene e la
vita di campisti è più difficile di un tempo e le esigenze, per le persone
come me, sono diverse perché le generazioni di oggi, più di ieri, si
rendono conto che la nostra casa, il ghetto, porta il problema. Ora noi
siamo più consapevoli che vivere in modo forzato, come viviamo ora,
non va bene e ci chiude un mondo e che il problema non è di chi vive
casa a casa, ma di chi ha fatto su di noi polemiche e non ha gestito bene
delle situazioni.
Quanto è importante per me fare conoscere la mia cultura, e quanto è
importante per me l’inclusione sociale.
Della vita gusto tutti i sapori, dolce e salato, mi piacciono tutti e due
insieme. Magari la pensassero così tutti. L’integrazione sarebbe più facile
e così la convivenza tra gagi e Sinti. Non ci sarebbe differenza fra case di
muro, casette mobili, roulotte, camper, gagi, Sinti, e non ci sarebbe solo
un modo giusto che tutti devono seguire per essere accettati, ma si
apprezzerebbe la diversità.
In questa società sempre più ostile e volubile nei nostri confronti,
nessuno può sapere da che parte nascere, se Sinti o gagi, se in carovane
o in case di muro. La vita è un grande viaggio per tutti e tutti siamo un
po’ girovaghi. E allora chi è che ci può fermare? Chi può dire chi siamo e
se siamo davvero liberi come a volte ci credono o se siamo solo
prigionieri di una società che ci spinge a intraprendere strade che in
realtà non vogliamo, e ci etichetta per radere al suolo tutto ciò che non
piace come se fossimo noi il problema di tutto?
E se tutti i Sinti del mondo fossero costretti ad andare a vivere dentro
alle case di muro, cosa ne sarebbe di loro, cosa ne sarebbe di noi? Cosa
farebbero per resistere? Come lotterebbero contro il popolo
maggioritario così ostile nei loro confronti? Cosa ne sarebbe dei Sinti?
Delle loro case mobili, le carovane, le nostre case?