der Wanderer
Ossi di Secchia

Se di ossa si vuol ragionare lo si farà. Già l’argomento richiama paure
lontane: stridori sinistri di denti, orbite vuote ante­Halloween, figure
cadaveriche. Temi evocati dalle sorelle grandi, precettate di malanimo a
badare a noi piccoli, nel tentativo di tenerci buoni. Rievoca spogli
cimiteri in abbandono: in uno di questi, dietro al muro di cinta perso
sul nulla, osservai resti di ossa umane bruciacchiate. Era quanto
rimaneva di un falò di casse sfasciate, e altro, acceso da un frettoloso
addetto comunale.
Il tema ci permette di riesumare il ricordo di lontane gite scolastiche o
parrocchiali; a volte le mete comprendevano la visita a ossari di caduti
del Risorgimento. Questi singolari edifici appaiono quali templi della
Rimembranza; sono sparsi intorno alla parte inferiore del lago di
Garda. Ne ricordo due. Al loro interno, le ossa assumevano più valore
decorativo, fine a se stesso, che apparire quali esse erano: una
esposizione ordinata – a file serrate – delle sacre spoglie di giovani
eroi, immolatisi per una futura Patria. Svettavano imponenti coni o
piramidi di teschi, cataste di tibie e, via via, altre pile strutturate di ossa
distinte per forma o grandezza. Un che di stantio vagava fra quelle
orbite vuote e quei ghigni ingialliti; un lieve strato di polvere ricopriva
ogni cosa appena scostata dai passaggi, fra lame di luce spioventi che
ne evidenziavano le mutevoli grigie sfumature. Noi, attoniti, ci
sentivamo osservati da quelle parvenze umane, quasi seguissero il
nostro cammino. Ma, attratti e stupiti ne subivamo il fascino. Erano i
teschi a focalizzare la nostra attenzione: non ce n’era uno uguale a un
altro, tangibile indizio di ogni identità irripetibile. Alcuni recavano
chiaro il segno di una morte repentina: un profondo taglio, un piccolo
foro, una parte squarciata. Indicavano la violenza di scontri ravvicinati,
la concitata volontà di uccidere, forse più per proteggere la propria vita
che per gli esiti della battaglia. Ma i teschi erano l’unica traccia
individuale che potesse collegarsi a uno specifico individuo; tutto il
resto era una mescolanza confusa, un’articolata catasta di resti
collettivi: ricomporre una persona sarebbe stata un’impresa
impossibile. Nella morte, tolte le teste, un unico individuo composito
aveva annullato i caratteri distintivi dei singoli. L’atmosfera sospesa di
quei luoghi determinava in noi un macabro piacere, la voglia di
fermarsi a osservare e riflettere. Non moltissimi anni dopo, dove avrei
mai potuto portare un nipote di appena tre anni venuto a trovarmi a
Rovereto, se non a visitare, dall’esterno, il colossale ossario della Prima
guerra mondiale...
Tutte queste sono però da considerare cose da nulla, se paragonate ai
sei milioni di scheletri, scomposti, esibiti nelle catacombe di Place
Denfert­Rochereau a Parigi, quella dell’imponente leone di bronzo:
le lion de Belfort.
Ma per vedere la massima espressione artistica sul tema, basta recarsi
nella cripta dei Cappuccini di Roma. Si trova all’inizio della ormai
decaduta Via Veneto. Fra numerose mummie di frati defunti appesi alle
pareti di vari locali, inquietante schiera di pupazzi ammiccanti,
spiccano raffinati disegni rococò nelle volte e sui fondali: motivi floreali
e geometrici di grande effetto decorativo. Tutti rigorosamente realizzati
con ossa umane varie. E’ da ammirare la cura posta nella scelta delle
ossa: i crani a formare strutture architettoniche aggiunte,
inframmezzate da decori di ossa scelte; le vertebre a comporre delicate
corone; ogni altro osso a completare con grazia le composizioni. Si
presume appartenessero tutte a monaci del convento annesso alla
chiesa. Una sola eccezione dà da pensare: sopra un altare due
scheletrini di bimbi, atteggiati ad angioletti, in perfetta simmetria si
guardano a vicenda. A rendere ancora più allegra l’atmosfera della
cripta, concorre la scelta di ricoprirne buona parte del pavimento con
una terra di un funereo bruno scuro, proveniente, si dice, dalla
Terrasanta: quasi a evocare l’elemento ideale in cui le ossa avrebbero
potuto purificarsi, in ogni senso.
Ossa. Le mie. Di tempi più recenti rivedo la medesima sala operatoria
in due momenti diversi. Entrambi anticipati da distinti incidenti: uno
sugli sci e l’altro per una rovinosa caduta accidentale. Ricordo
nettamente i due attimi: il sinistro scricchiolio, stavolta reale, del
pollice che si frantumava contro una staccionata, dopo un breve volo
librato; il secco rumore come di un’asse spezzata mentre, impedito,
piombavo a terra rompendomi avambraccio e polso. In quei momenti,
ve lo assicuro, balenano strani colori. Nel primo intervento, in
anestesia locale, ho potuto seguire la corte serrata fatta dal giovane
chirurgo ortopedico, con avance appena velate, a una nuova avvenente
infermiera, per tutto il tempo impiegato a operarmi. Nel secondo – mi
avevano intimato di non guardare i ferri, di stare fermo e zitto, – ho
seguito muto una lunga discussione mistilingue, tedesco­italiano, sulla
qualità della pizza nei non pochi locali del posto, con tanto di classifica
finale. Il pollice, chissà perché, tolti i vari tiranti, è rimasto con una
piega innaturale. Alla proposta letterale di “romperlo di nuovo per
aggiustarlo”, ho preferito tenerlo così. Il mio cervello ha impiegato poi
due anni per dare alla mano le direttive giuste alla presa modificata,
affinché potessi tornare a disegnare come prima.
Concludo queste brevi riflessioni autobiografiche con un’ultima
variazione sul tema. Con L., il mio amico storico d’infanzia, si andava
ogni domenica a servir messa. Ci davano in compenso cento lire a
testa, allora una cifra interessante. A due passi da casa nostra vi era un
convento di suore di clausura, con annessa una piccola chiesa
secentesca aperta al pubblico. Con il tempo eravamo diventati i
beniamini sia delle due suore guardiane, sia di quelle della clausura,
almeno una quarantina, di ogni età (ci potevano osservare da un’ampia
apertura, laterale al presbiterio, provvista di robuste sbarre, al riparo da
sguardi indiscreti). Ne ricordo alcune decrepite, altre giovani e
graziose: novizie vestite di bianco, in contrasto con il nero funereo
delle consorelle. Non poche ci salutavano con la mano o ci sorridevano
al nostro apparire. Non è che potessero vedere molta gente, prete e
chierichetti esclusi. Eravamo meno angelici di quanto dessimo a
credere.
Era la sera di Ognissanti. Come premio per la devozione e l’impegno
sempre dimostrati, le suore guardiane ci permisero di riportare le teche
di vetro delle reliquie nell’apposito stanzino, caricandole su un
carrellino. Le avevamo prelevate con loro la sera precedente.
Consideravano questa concessione un grande onore per noi. In ogni
teca, provvista di sportello posteriore per la manutenzione, o di
coperchio, vi erano i resti di qualche santo del calendario, soprattutto
di martiri: due tibie, uno sterno, tre costole, una calotta cranica, diverse
vertebre unite e altre ossa varie; ricordo qualche boccetta con sostanze
liquide di vari colori e dubbia provenienza. Non mancava nemmeno un
teschio completo, lucidato a cera, e una piccola mano scheletrita tenuta
insieme da fil di ferro. Ogni reliquia era adagiata su morbidi cuscini di
velluto, di colore in tinta con le ossa, finemente ricamati con fili d’oro e
d’argento. Ero molto giovane, avevo forse dieci anni, ma un dubbio già
mi assaliva: nella chiesa parrocchiale del luogo dove trascorrevo parte
delle vacanze estive avevo visto reliquie simili; due condividevano con
quelle di Modena il medesimo santo. Nel lungo corridoio che
conduceva al ripostiglio, fuori dalla vista delle suore custodi, estasiate
dal nostro zelo, infilammo le mani in diversi reliquiari. Il teschio, subito
estratto dal mio irrequieto compagno di giochi, mostrò una lingua
biforcuta (erano due dita di L.); io usai la calotta come papalina,
roteando con fare minaccioso due tibie. “Avete sistemato tutto,
bambini? – cinguettò suor X – abbiamo una sorpresa per voi”.
Rimettemmo ogni osso al proprio posto, almeno credo, sistemando le
teche sugli scaffali. Mentre beati ci gustavamo un grosso budino di
cioccolata, L. mi bisbigliò: “Il prossimo anno mi porterò un osso di
santo a casa, ce ne sono tanti... nessuno se ne accorgerà. Potrebbe
essermi d’aiuto alle verifiche”.
E così, l’anno seguente, fece.


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