La Manx
VictorinoxTM
Incede impettito, il passo è felpato. Dagli occhi lancia saette che sono
proiettili traccianti e sfoggia sulla faccia tosta un sorrisetto di
compiacimento grasso. Sfodera tutti gli argomenti, certo che andranno
a segno: la tinta nera e lucente della chioma ondulata, lo smalto bianco
e scintillante della dentatura rifatta, la pelle bronzea da solarium
estremo, l’eleganza Burda Style che odora di canfora e di lozione
dopobarba.
E’ il cascamorto aziendale.
Oggi più in forma che mai, di rientro da una trasferta di giorni, fa
notare la sua ritrovata presenza dispensando bonjour con voce
cantante. Stridulo di contentezza per essere lui l’attrazione del
momento, porge un raffinato cadeau alle segretarie commerciali, per
tutte lo stesso: il suo umido baciamano guarnito di guizzo nello
sguardo come a dire... sei già mia.
Vistoso nel contegno, marca il territorio seminando battutelle riderecce
a cui seguono, sguaiate, le risa sue e delle figuranti che gli fanno
codazzo.
A spettacoli scadentissimi come questi tocca assistere regolarmente con
la consapevolezza che, nella sovreccitazione da ritorno in sede, il
soggetto in questione oserà certamente varcare la soglia di uffici
neutrali.
Gli uffici neutrali superstiti sono due: quello sempre deserto
dell’addetta alla manutenzione aziendale e il mio. Più che neutrale, il
mio potrebbe dirsi ostile o, se provocato, belligerante.
Ma, esaurite le moine vischiose di bava, invece di proseguire verso uffici
non compiacenti, il cascamorto si mette alla scrivania, ché lui qui ci
sarebbe venuto per lavorare, o almeno a far finta.
Per un po’ tutto sembra riposarsi dagli schiamazzi di corridoio e calarsi
in una quiete anomala viste l’ora e la presenza dei colleghi negli uffici
vicini. Succede a volte che tutti stiano zitti ed è bellissimo. Non faccio
in tempo a considerare che il silenzio è d’oro, che una specie di grido
terrificante lo squarcia di colpo.
Che succede? Si chiedono tutti, e il corridoio è un’infilata di teste
sbucate dai loculi. Ancora un grido. Una specie di ululato. Proviene
dalla stanza del cascamorto aziendale. Si precipitano tutti, io osservo a
distanza. La segretaria del cascamorto grida aiuto e insensatezze. Mi
chiamano. Dicono che devo andare. Precipitarmi. Di che si tratta?
Perché mai dovrei precipitarmi? E’ un malore. Un malore, urla la
segretaria impazzita. Tu devi praticargli il massaggio cardiaco. Tu sei
l’addetto al PS aziendale. Devi praticargli quella roba lì. Mi trascina per
un braccio, tirandomi come se avessi le ruote. Ma sono piantata a terra,
mi hanno costretto a seguire il corso di PS per questioni di anzianità,
mi hanno incastrato, maledetti. Chiamate l’ambulanza, dico, presto,
non me la sento di intervenire, non sono abbastanza prestante. Lo dico,
che mi frega. Lo dico. Invece no, lo penso e basta. Il solo pensiero di
appoggiare la mia bocca sulla bocca smorta del cascamorto mezzo
morto mi provoca conati mentali. Ho gli occhi sbarrati, anche il
cascamorto ha gli occhi sbarrati. Che sia morto? No. Mi incitano, le
segretarie e i commerciali, tutti, ad agire, a non indugiare oltre. Mi
viene in mente che l’azienda dispone di defibrillatore e se dio vuole
non sono io la persona autorizzata a usarlo. Mi appello a questo, già
sollevata all’idea di averla scampata. Chiamate subito l’addetto al
defibrillatore! E chi cavolo sarebbe? Chiamate subito l’addetta alla
sicurezza, lei deve sapere chi è l’addetto al defibrillatore. Mi esortano
incattiviti. Muoviti, fai quello che devi fare prima che ci lasci le penne! E
allora mi tocca. Mi ricordo che prima devo soffiargli aria dentro,
praticando la notissima respirazione artificiale, bocca a bocca, bouche
àbouche, maledizione. Ci sono, posso farcela. Avvicino sudante il
cascamorto aziendale, il mio viso al suo viso e, piena di schifo ma
delicatamente, appoggio le mie labbra sulle sue labbra. Gonfio d’aria i
polmoni e soffio in quella voragine come un mantice. Una volta. Due
volte. Sto per completare il terzo soffio, quando qualcosa di molliccio e
bollente si inserisce a tradimento nella mia bocca operosa. Schizzo in
piedi come una molla e sbarro gli occhi nel fragore generale. Il
cascamorto scoppia in una risata che dice tutto, satanica, e tutti i
presenti ridono anche loro, sicuri che sia tutto molto divertente. Ma io
non rido. Un conato plateale denuncia il mio disgusto. Non dico nulla
e mi faccio largo fra le risate degli astanti che restano sul posto a
raccontarsela già come la barzelletta dell’anno, della storia,
probabilmente. Una furia mai provata mi offusca la vista, no, non
proprio, la riduce a un tondo, come se guardassi in un monocolo. Il
resto è affumicato, nero. Mi dirigo nel mio ufficio. Entro come un
automa e rovisto nella borsa. So cosa sto cercando. Lo intravedo fra
carte, biro e fazzoletti sporchi. E’ liscio e ci sono le stelle alpine sopra.
Lo apro. Torno sui miei passi. Di là stanno ancora spanciandosi dalle
risate. Entro e si zittiscono. Guardo negli occhi il cascamorto aziendale
e senza un fiato mi avvento su di lui appiccicando le mie labbra alle
sue. Contemporaneamente, affondo una piccola lama nel suo collo. Gli
occhi del quasi compianto cascamorto, sorpresi e fissi, non smettono di
essere languidi. Un rivolo rosso sottile macchia imperdonabilmente il
suo collo di camicia inamidato mentre lui crolla ginocchioni ad
abbracciarmi i fianchi. Mi scosto, lo lascio svanire sul pavimento, dove
poco prima inscenava una morte. Mi chino a riprendere ciò che è mio e
abbandono la stanza nello sgomento generale.
Ho sempre confidato nella capacità offensiva del mio coltellino
svizzero.