Simonetta Malinverno
Io un’arma

Zingarelle pericolose
Io posso essere un’arma per la gente? La parola “zingara” può fare tanta 
paura  da  considerarmi  pericolosa?  Cosa  si  nasconde  dietro  la  parola 
“zingara”?  Si  potrebbe  immaginare  di  tutto  ma  di  certo  non  si  può 
considerarla  una  parola  sinonimo  di  sicurezza.  Io  la  considero  una 
parola discriminatoria, ma non è stato sempre così. 
Ricordo un episodio che risale a quando ero piccola: io e le mie due 
sorelline  frequentavamo  la  scuola  elementare  e  spesso  eravamo  prese 
di  mira  da  certi  compagni  che  ce  ne  dicevano  e  facevano  di  tutti  i 
colori:  insulti  razziali,  discriminazioni,  abusi.  Molto  spesso  stavamo 
zitte  e  non  parlavamo  neppure  con  le  maestre  che  quindi  non 
conoscevano il disagio e le violenze verbali e fisiche che subivamo.
Un giorno, senza capirne fino in fondo il motivo e nemmeno la gravità, 
dalla mensa scolastica, presi un piccolo coltello di plastica e lo portai in 
cortile.  Quattro  ragazzini,  i  bulli  della  scuola,  iniziarono  a  disturbare 
con offese e spintoni le mie sorelline. Fu lì che tirai fuori il coltellino di 
plastica.  Non  lo  avrei  mai  usato,  ma  ricordo  che  i  miei  compagni 
avvisarono le insegnanti. Fortunatamente le insegnanti ci conoscevano 
e sapevano benissimo che eravamo tre bimbe tranquille e buone ma lo 
stesso,  per  i  nostri  compagni,  eravamo  diventate  “le  zingarelle 
pericolose”. 
Nessuno di quei ragazzini venne mai più a disturbarci e, grazie all’aiuto 
e alla comprensione delle insegnanti, diventammo tutti amici.

Tiro a segno
Lavoravo  nel  tiro  a  segno  di  mio  padre.  All’età  di  dieci  anni  già 
manovravo, caricavo, sparavo con i fucili di mio padre. Sì, perché io ci 
lavoravo lì dentro. Era bellissimo. Prima di chiamarsi tiro a segno si era 
chiamato “tiro alla quaglia”. Ricordo che all’inizio dell’attività, il tiro a 
segno di mio padre era pieno di gabbie con dentro le quaglie e che io e 
le  mie  sorelle  ci  divertivamo  a  tirarci  addosso  le  uova  di  quaglia  per 
gioco.  Dopo,  le  gabbie  erano  state  sostituite  coi  cartelli  da  centro. 
C’erano otto fucili molto grandi e una decina di cartelli da centro. Io 
me la cavavo molto bene a sparare e facevo molti centri sul cartoncino 
dei  punti  di  vincita.  Ricordo  che  si  pagava  1500  lire  per  tre  colpi.  A 
volte,  nonostante  la  mia  età,  gareggiavo  con  i  clienti,  lanciavo  sfide  e 
vincevo soldi. Tutto questo mi divertiva. Passavo molte ore a lavorare e 
mi piaceva moltissimo. A volte assistevo a vere e proprie gare fra tiratori 
scelti e la cosa mi entusiasmava. Che soddisfazione era per me lavorare, 
sparare e vincere!
Quando sono diventata grande, ho scoperto che le armi uccidono. Era 
il  1990.  Stavamo  a  Bologna  quando  la  banda  della  Uno  bianca  ha 
segnato la nostra vita. Due sinti dei nostri sono morti. I proiettili che li 
hanno uccisi, lo ricordo come se fosse ora, si chiamavano proiettili bum 
bum,  capaci  di  penetrare  e  scoppiare  all’interno  del  corpo.  In  quegli 
anni  noi  stavamo  a  Corticella,  poco  lontano  dal  luogo  dove  era 
avvenuta  la  strage  e  ci  sentivamo  minacciati.  Avevamo  paura  di  uscire 
dalle nostre carovane. Abbiamo passato l’inferno, come del resto tutti i 
cittadini bolognesi. Solo Dio sa quanto abbiamo sofferto.

Io, un’arma
Avere  armi  non  è  da  tutti,  ma  devo  ammettere  che  a  volte  mi  sono 
sentita io stessa un’arma. Tutte le volte che mi chiamano “zingara” io mi 
sento un’arma perché la gente ha paura di questa parola. Dai miei amici 
gagi, quando ero un’adolescente, sono stata usata come arma. Bastava 
minacciare altri gagi dicendo che ero una “zingara” perché i gagi miei 
amici  si  sentissero  intoccabili.  Essere  una  “zingara”  faceva  di  me  una 
persona  forte,  di  cui  avere  timore.  Io  stessa,  a  volte,  usavo  quella 
parola,  dicevo  che  ero  una  “zingara”  per  costruirmi  una  difesa,  mi 
convincevo  di  essere  forte  davvero.  Bastava  una  parola,  che  strano... 
per una difesa che non avrei voluto: non mi consideravo una minaccia, 
anzi, ero magra e avevo paura. Ho preso anche tante botte senza averlo 
nemmeno  scelto,  solo  perché  gli  amici  gagi  mi  mettevano  in  mezzo 
facendomi  sentire  qualcosa  che  non  ero.  Senza  che  me  ne  rendessi 
conto, i gagi mi brandivano come un’arma, nonostante io fossi timida e 
di buoni principi, come i miei genitori mi avevano insegnato ad essere.
La parola “zingara”, tuttora, sembra avere il peso difensivo e offensivo 
di un’arma. E la parola “sinta” invece non la conosce quasi nessuno. 
Una  volta,  nella  parola  “zingara”  risuonavano  mille  belle  canzoni 
d’amore che erano parte dei nostri bei ricordi. Oggi, sentirsi chiamare 
“zingara” manda in frantumi come una bomba. 
Io non voglio essere o pensare di essere considerata un’arma. So che 
esiste  la  violenza  fisica,  verbale  e  psicologica  perché  l’ho  provata  in 
prima persona. Ci sono mille modi di fare del male a qualcuno e tutti ci 
sentiamo uguali di fronte alle armi. 
Purtroppo  si  tende  a  difendersi  da  quello  che  fa  paura  usando 
l’ignoranza, non l’intelligenza.
Io non voglio etichette che uccidono, né armi che uccidono. Voglio che 
solo l’amore e il rispetto, la conoscenza e la saggezza possano diventare 
le armi di tutti. 


precedente
successivo