Arto Humo
Olga è andata a casa

Quando  il  figlio  dell’Olga  va  a  trovare  la  madre  reclusa  alla  Pia  Casa  la 
domenica mattina, al citofono si annuncia proprio così: “chi è?”, gli chiedono, 
“sono il Figliodelolga”, dice lui.
Dopo un po’ dalle finestre della Pia Casa si sente l’Olga che fa:
“Portèm a cà!”.
“T’al sèt c’an posia brisa!”, risponde il Figliodelolga.
Allora  il  Figliodelolga  rimane  lì  un  altro  po’,  ed  è  tutto  arrabbiato  perché 
l’Olga  gli  fa  delle  richieste  assurde  e  a  lui  gli  tocca  di  trattarla  male  anche 
stavolta, ma poi si alza, fa per darle un bacio come per dire che gli è passata, 
che è pur sempre il Figliodelolga, che non ce l’ha più con lei, l’Olga però gira 
la testa dall’altra parte e fa così con le spalle, e il Figliodelolga rimane lì con le 
braccia lungo i fianchi a guardarla, e la disapprova quella sua mamma cocciuta 
che lo fa disperare, poi scuote la testa ed esce dalla porta senza salutare.
Dopo che il Figliodelolga se n’è andato, di solito l’Olga rimane da sola seduta 
sul  letto,  e  piange  un  po’  finché  non  viene  l’ora  di  scendere  giù  nel  salone 
comune per il pranzo. Certi giorni che il Figliodelolga è stato più brusco del 
solito, l’Olga non ha neanche voglia di mangiare, e quasi quasi starebbe lì da 
sola e piangere un altro po’, ma è domenica, e la domenica a pranzo c’è la 
torta.
L’Olga  si  avvia,  e  nel  corridoio,  andando  verso  l’ascensore  montalettighe, 
incontra l’Erminia.
L’Erminia  è  una  che  ci  mette  un  sacco  di  tempo  a  fare  tutto  il  corridoio, 
perché  deve  fare  un  passettino  alla  volta  con  quelle  gambette  secche 
spingendo il deambulatore, sembra un uccello con le scarpe di piombo. Così 
l’Erminia  ha  cominciato  che  punta  una  sveglia  apposta  per  partire  verso  il 
salone del pranzo mezz’ora prima del tempo, ma finisce lo stesso che arriva 
sempre dopo tutte le altre, e d’altra parte è anche normale, pensa, quando ti 
ritrovi con delle gambe come le sue.
Quando non l’avevano ancora chiusa nella Pia Casa, e l’Erminia viveva con sua 
figlia in una villetta a schiera tanto carina, andava molto fiera delle sue gambe 
doloranti,  così  fiera  che  delle  volte  per  farle  vedere  ai  nipoti  li  chiamava  a 
raccolta, tirava un po’ su l’orlo della gonna e mostrava tutta una geografia di 
bitorzoli  e  vene  varicose  rosse  e  blu,  che  sembravano  certe  mappe  antiche 
disegnate  sulla  cartapecora,  con  il  corso  tortuoso  di  qualche  fiume,  il  Nilo 
magari,  e  questi  fiumi  scorrevano  in  mille  anse  varicose  e  rivoli  tumefatti  in 
mezzo  a  un  deserto  traslucido  bianco  e  giallo,  e  si  perdevano  poi  in  quella 
pelle  arida  in  venuzze  sottili  bluastre,  poi  più  niente  di  vivo,  poi  hic  sunt 
leones.
I  nipoti  davanti  a  quello  spettacolo  scappavano  da  tutte  le  parti  lanciando 
gridolini  schifati,  finché  un  giorno  la  figlia  dell’Erminia  non  ne  aveva  avuto 
abbastanza,  e  con  la  scusa  di  un  certo  viaggio  che  dovevano  fare  lei  e  suo 
marito, l’aveva portata alla Pia Casa e non era più tornata a riprenderla.
“Alaura? Com’a’st’et?”, fa l’Erminia quando l’Olga le passa davanti.
“Com’a vot c’a stagh’ia?”, dice l’Olga, “a voi andèr a cà!”.
Intanto sono arrivate all’ascensore montalettighe, e l’Olga preme la chiamata.
“Anca mè, a n’in pos piò”, dice l’Erminia guardando sconsolata il pavimento 
mentre aspettano che si aprano le porte scorrevoli.
Nell’ascensore  ci  sono  già  altre  due  signore,  del  tipo  poco  socievole,  con  la 
spocchia di quelle che stanno su al piano delle Signore Bene, che fanno un 
sacco  di  storie  per  far  entrare  il  deambulatore  dell’Erminia,  e  fanno  delle 
smorfie  mica  tanto  simpatiche  e  borbottano  tra  loro  per  tutta  la  discesa,  e 
anche l’Olga borbotta: “a voi andèr a cà”.
A  pranzo  zuppa  di  carote  e  arrosto  di  vitello,  roba  tenera  per  denti  fragili, 
denti persi e denti falsi.
Al momento del dolce davanti alle signore della Pia Casa compaiono piattini 
bianchi con una fetta di torta sottile sottile, per tutte, tranne che per l’Olga: 
davanti  all’Olga  il  piattino  bianco  con  la  scritta  blu  “Pia  Casa”  non  porta  la 
solita  fetta  di  torta  della  domenica,  nel  piattino  che  l’inserviente  ai  tavoli 
mette davanti alla faccia sbalordita di Olga c’è solo una mela tagliata a spicchi.
“E questa roba cosa sarebbe?”, chiede l’Olga che non riesce a credere ai suoi 
occhi,  “Ordine  del  dottore  Olga”,  le  dice  l’inserviente,  “niente  torta,  per  via 
della glicemia”.
Questo  è  un  colpo  che  Olga  non  si  aspettava  proprio,  non  la  torta  della 
domenica, questo no, si alza in piedi: “Mè a’n la voi brisa c’la roba lè”, dice 
quasi gridando.
Le  altre  vecchie,  quelle  che  ancora  ci  sentono  almeno,  la  guardano  con  gli 
occhi sbarrati, qualche dentiera cade sui tavoli.
“Ah, non la vuoi?”, fa l’inserviente, “Va bene Olga, nessun problema”, e prende 
il piattino con gli spicchi di mela.
Olga è furiosa, si avvia col passo più deciso che può verso l’uscita, risoluta a 
tornarsene in camera.
“Aspetta  Olga”,  prova  a  dirle  Erminia,  “vengo  con  te”,  ma  le  gambe 
dell’Erminia  non  le  permettono  di  seguirla,  preferiscono  restare  lì  sotto  il 
tavolo loro, davanti al piattino con la fetta di torta sottile.
Più tardi Erminia, dopo la lunga traversata del corridoio, bussa alla porta della 
stanza di Olga, e siccome nessuno le risponde entra lo stesso. Olga è seduta 
sul letto, si tiene la testa tra le mani e piange in silenzio. Poi si accorge della 
presenza di Erminia e la guarda: “Mè a vag a cà!”, le dice.
Per qualcosa che non saprebbe definire l’Erminia sa che questa volta Olga non 
sta scherzando, questa volta si va a casa per davvero.
“Stammi a sentire Olga”, le fa allora Erminia, “io è un bel po’ che ci penso, e 
avrei già un’idea, un piano per così dire”. Olga ha un lampo negli occhi, in un 
attimo Erminia ha tutta la sua attenzione: “Dì mò”, fa Olga.
Il piano dell’Erminia è semplice: ha studiato per bene i turni degli inservienti, 
dice, e c’è il mercoledì che, dato che la direzione cerca di risparmiare e non 
ha  sostituito  uno  che  è  andato  in  pensione,  tutto  il  piano  terra  resta 
incustodito, e al piano di Olga ed Erminia c’è solo Dario, e Dario, si sa, dorme 
tutta la notte.
Dario  è  il  più  odiato  degli  inservienti,  sulla  trentina,  lavora  alla  Pia  Casa  da 
due o tre anni. E’ sgarbato con tutte le signore e quando fa il turno di notte 
invece di girare a controllare se tutto va bene, si chiude nella stanza in fondo 
al corridoio e dorme come se niente fosse, che hai un bel da chiamarlo se hai 
bisogno di cambiare un pannolone o vuotare una padella, “E’ della bassitalia”, 
dicono le signore del piano delle Signore Bene con l’aria di saperla lunga.
Comunque  sia,  se  si  vuole  andare  a  casa,  il  mercoledì  è  il  giorno,  dice 
l’Erminia.
“E  la  chiave?”,  chiede  Olga,  che  sa  bene  che  le  inservienti  di  notte  hanno 
l’abitudine di chiudere a chiave il portone che dà sulla strada.
“La chiave la n’è brisa un problema”, dice Erminia trionfante.
Il fatto è che al piano delle Signore Bene vive anche la contessa Guzzani, che 
sta  sulla  sedia  a  rotelle,  e  la  contessa  Guzzani  è  di  quei  Guzzani  cui 
apparteneva  in  origine  il  palazzo  della  Pia  Casa,  che  quando  morì  il  nonno 
della  contessa,  il  vecchio  Guzzani,  lo  lasciò  alla  città  perché  ne  facesse  un 
ricovero per le signore, e la contessa, quando è rimasta in sedia a rotelle, che i 
parenti,  soprattutto  quella  serpe  di  sua  nuora,  si  misero  d’accordo  per 
mollarla  lì,  in  quello  che  una  volta  era  stato  il  palazzo  di  famiglia,  lei  si  era 
portata dietro una copia delle chiavi che aveva fin da bambina, e la serratura 
del  portone  non  era  mai  stata  cambiata  in  tutti  quegli  anni,  e  così... 
Insomma, la chiave, dice Erminia, la n’è brisa un problema.
“Perché, ce la dà?”, chiede allora Olga, che la contessa Guzzani la vede come il 
fumo negli occhi.
“No, dice che vuole venire anche lei”, risponde Erminia.
“Come sarebbe che vuol venire anche lei?”, fa Olga, “piutost à stag chè! Tal sèt 
che  la  signora  contessa  era  anche  fascista?  Vót  c’la  purtamm  seco  che  mè  a 
i’era spuseda con un partigian?”
“Non  fare  la  stupida  Olga,  ragiona”,  dice  Erminia,  “che  senza  la  chiave  non 
andiamo da nessuna parte”
“Mo vacca boia” fa Olga, ma sa bene che Erminia ha ragione: “dì a c’la vecia 
fasesta che mercoledì sera ce ne andiamo a casa, con o senza di lei”.
Mercoledì  alla  Pia  Casa  è  un  giorno  glorioso,  che  a  prima  vista  appare 
normale, e comincia come tutti i giorni con giunture scricchiolanti e lunghe 
catene di pillole colorate da prendere con un po’ d’acqua prima di colazione, 
ma giorno speciale per Olga, per Erminia e per la signora contessa Guzzani, 
che oggi si va a casa.
La  sera  sembra  non  arrivare  mai,  il  pomeriggio  è  lunghissimo  di  scarabeo  e 
pinnacoli, con Olga, campionessa assoluta e incontrastata del terzo piano, che 
riesce a perdere una partita con la Rebecchi, una che prima di essere portata 
alla  Pia  Casa  non  sapeva  nemmeno  giocare,  e  anzi  diceva  che  lei, 
professoressa in pensione, odiava i giochi delle carte come si odia il purè di 
piselli  insipido,  e  avrebbe  sempre  preferito  un  buon  libro  di  Baricco  a  una 
partita di briscola.
“Olga,  attenta”,  le  dice  allora  Erminia,  “se  perdi  ancora  con  la  Rebecchi  la 
gente comincerà a pensare che c’è 
qualcosa di strano”.
“Tanto non ho più voglia di giocare”, dice Olga nervosa sbattendo le carte sul 
tavolo e alzandosi per andare in camera, e in camera Olga aspetta il tramonto 
e l’ora che lei, Erminia e la signora contessa Guzzani si troveranno alla porta 
dell’ascensore  al  terzo  piano,  e  l’ora  che  hanno  concordato  sarà  le  undici  e 
mezza in punto, quando Dario il sorvegliante dormirà profondamente con il 
televisore acceso nella stanza di servizio.
Olga passa le ore successive a preparare le cose da portare con sé: poca roba, 
una piccola valigia appena di ricordi, vecchie fotografie, le lettere che le aveva 
scritto suo marito quando erano fidanzati. Non ha bisogno di nient’altro Olga, 
e soprattutto non vuole portare niente che le ricordi la Pia Casa, quel posto 
dove l’hanno gettata come si butta una cosa che non serve più.
Alle dieci Olga è già in piedi accanto alla porta, che lancia occhiate furtive in 
corridoio  ogni  cinque  minuti:  tutto  a  posto,  poco  viavai,  il  solito,  qualche 
vecchia persa, qualche infermiera con il suo carico di pillole, niente di strano.
Verso le undici si sente il cigolio del deambulatore di Erminia che affronta a 
tutta  velocità  il  corridoio,  per  le  undici  e  mezza  ce  la  farà,  pensa  Olga,  sarà 
perfettamente in orario.
Alle undici e mezza Olga esce in corridoio, al momento esatto in cui Erminia 
passa  in  corrispondenza  della  sua  porta,  fanno  insieme  i  dieci  passi  che 
separano  la  stanza  di  Olga  dall’ascensore,  e  a  Olga  sembrano  milioni  di 
milioni, ma sono passi che portano a casa.
Olga ed Erminia ora davanti alle porte dell’ascensore aspettano che dal piano 
delle  Signore  Bene  arrivi  la  signora  contessa  Guzzani,  poi  tutte  e  tre 
scenderanno verso la libertà.
Ma è in questo momento che da dietro l’angolo, stropicciandosi gli occhi con 
l’aria  assonnata,  compare  Dario  il  sorvegliante.  Ci  mette  qualche  secondo  a 
realizzare che qualcosa non va, ma alla fine capisce: “Signore, cosa fate in giro 
a quest’ora? Ognuna in camera sua, subito e senza storie”, dice.
“MAI!”  grida  allora  Erminia,  e  si  dirige  col  deambulatore  verso  Dario  che, 
sorpreso dalla lenta furia di Erminia, indietreggia.
In quell’attimo si aprono le porte dell’ascensore, e dentro ci sono la signora 
contessa  Guzzani,  sulla  sedia  a  rotelle  e  vestita  da  ballo,  e  dietro  di  lei, 
spingendo la carrozza, la Rebecchi in qualità di dama di compagnia.
La signora contessa Guzzani capisce la situazione al volo e con nobiliare piglio 
guerriero subito grida: “Avanti Savoia!”.
La Rebecchi non se lo fa dire due volte, e si lancia in avanti, e a quel punto 
anche Olga si scuote e, riavutasi dallo stupore, la segue con tutta la velocità di 
cui è capace.
In  un  attimo  superano  Erminia  che  intanto  ha  continuato  ad  avanzare  a 
piccoli  passi,  e  sono  addosso  a  Dario  che  colto  di  sorpresa  non  riesce  a 
difendersi, e anzi indietreggiando inciampa negli zoccoli verdi da ospedale e 
cade pesantemente sulla schiena nel corridoio.
Olga  e  la  Rebecchi  gli  sono  sopra,  e  l’Erminia,  che  finalmente  ha  raggiunto 
l’obiettivo gli blocca le gambe col deambulatore.
La signora contessa Guzzani intanto è rimasta sulla sedia a rotelle accanto alla 
porta dell’ascensore, e continua a gridare ordini e ad incitarle alla pugna, e la 
lotta è feroce, grugniti e digrignar di dentiere.
“Erano trent’anni che non stavo sopra a un uomo”, grida la Rebecchi al colmo 
di  un’eccitazione  schiumosa  di  vittoria  mentre  lei  e  Olga  col  loro  peso 
bloccano a terra un terrorizzato Dario incapace di qualsiasi reazione.
In quel mentre si apre la porta di una stanza e una vecchina si sporge: “Cos’è 
questa confusione?”, chiede. La signora contessa Guzzani non perde tempo e 
ordina  alla  vecchina  di  andare  a  prendere  garza  e  cerotti  nella  stanza  delle 
infermiere,  e  di  portarli  a  Olga,  Erminia  e  alla  Rebecchi,  che  legano  e 
imbavagliano il povero sorvegliante.
“Andiamo  a  casa!”  dice  a  titolo  di  spiegazione  l’Erminia  trionfante  alla 
vecchina  stupefatta  mentre  le  porte  dell’ascensore  si  chiudono  sulle  quattro 
fuggiasche e su Dario preso in ostaggio.
“Cosa  ne  facciamo  di  lui?”,  chiede  Olga  mentre  l’ascensore  scende  al  piano 
terra.
“Lo portiamo con noi”, dice risoluta la signora contessa Guzzani, “volete che 
si liberi e dia l’allarme?”
Arrivate di sotto la signora contessa Guzzani consegna con fare solenne a Olga 
un mazzo di chiavi legate con un nastro di raso rosa antico: “signora Olga, a 
lei l’onore”, dice la contessa Guzzani, Olga non riesce a trattenere un sorriso.
Mentre le altre fanno sedere Dario su una sedia a rotelle, Olga apre il pesante 
portone.
L’aria fresca della notte entra nell’atrio della Pia Casa, e ha profumo di vittoria 
e di libertà
Olga  controlla  la  strada:  non  c’è  nessuno,  si  può  andare,  e  in  un  attimo  le 
fuggiasche sono fuori.
Si incamminano per la città deserta, con Olga che spinge Dario sulla sedia a 
rotelle,  la  Rebecchi  che  spinge  la  signora  contessa  Guzzani  mentre  lei  tiene 
una conferenza sull’architettura del palazzo avito, e Erminia dietro, che viene 
arrancando col suo deambulatore.
Olga guarda le finestre dei palazzi, la città che le dorme intorno è la città dove 
è nata e ha vissuto tutta la vita, ma non la riconosce più, le sembra diversa, e 
chissà quanto tempo ha passato chiusa là dentro alla Pia Casa, pensava fossero 
passate  poche  settimane,  ma  ora  crede  che  forse  potevano  essere  mesi,  o 
anni. Ci sarebbe morta là dentro, lo sentiva. “Andàm in piaza”, dice allora Olga 
che all’improvviso ha voglia di vedere se il Duomo e la Ghirlandina, almeno 
loro, sono ancora lì dove li aveva lasciati nei suoi ricordi.
Dalla  sedia  a  rotelle  sulla  quale  l’hanno  legato  con  parecchi  giri  di  cerotto 
intanto  Dario  il  sorvegliante  mugola  qualcosa,  e  si  agita,  e  si  vede  che 
vorrebbe liberarsi.
“Mo  tès!  E  basta  con  sta  caciara!”,  gli  fa  l’Erminia  che  sbuffa  cercando  di 
tenere il passo.
“La  questione  è  spinosa”,  dice  la  signora  contessa  Guzzani,  il  cui  secondo 
marito  era  avvocato  penalista  “che  l’aver  prelevato  il  qui  presente  Dario, 
seppur con le attenuanti del caso, potrebbe configurare il reato di sequestro 
di persona”.
“Echissenefrega!”,  grida  da  dietro  Erminia  che  si  sente  libera  e  viva  come  le 
sembra di non essere stata mai.
Ma  Olga  e  la  Rebecchi,  seppure  a  malincuore,  devono  ammettere  che  la 
signora contessa non ha tutti i torti, e poi in effetti se si vuol far perdere le 
proprie tracce, portarsi dietro un rappresentante dell’istituzione dalla quale si 
è in fuga non è poi sta gran idea.
Così  parcheggiano  Dario  ancora  legato  sulla  sedia  a  rotelle  accanto  a  un 
cassonetto della differenziata e lo lasciano lì.
Arrivano poi dove Corso Canalgrande incrocia la via Emilia, e girano a sinistra 
verso Piazza Grande. Mentre camminano al centro della strada, sui cubetti di 
porfido  rosso  Olga,  Erminia,  la  Rebecchi  e  la  contessa  a  rotelle  si  trovano 
inondate  dalla  luce  dell’alba.  “Stiamo  andando  a  casa  Olga?  Ci  andiamo 
davvero?”, chiede Erminia.
“Sì Erminia, andàm a cà”, risponde Olga, e sorride nella luce dorata, e si sente 
giovane e forte all’improvviso, come quando il sabato pomeriggio lì sulla via 
Emilia  e  sotto  i  portici  faceva  le  vasche  avanti  e  indietro  al  braccio  del  suo 
fidanzato, quello che aveva combattuto in montagna e che sarebbe diventato 
suo marito, ed Erminia la guarda, e vede che Olga ha di nuovo vent’anni, e 
due lunghe gambe veloci e ginocchia che non scricchiolano e denti bianchi e 
forti per sorridere alla vita e prenderla a morsi.
“Come sei bella Olga!”
“Anche tu Erminia”, e ormai sono in Piazza Grande.
“Andàm a cà Olga”, dice l’Erminia,
“Andiamo Erminia”, dice Olga, ma si guarda intorno perché a dire il vero alla 
sua casa non si ricorda tanto bene come ci si arriva.
“Non era tanto lontana dal Duomo”, pensa Olga, ma non è più molto sicura. 
Olga  pensa  che  forse  si  potrebbe  prendere  un  autobus,  e  chiedere  al 
conducente  magari.  Sì,  ma  quale  autobus?  E  poi,  ci  saranno  ancora  gli 
autobus?  E’  tanto  che  non  ne  prende  uno,  e  si  sente  d’improvviso  molto 
confusa.
“Avrei  un  certo  languorino”,  dice  in  quel  momento  la  signora  contessa 
Guzzani, “mi ricordo che una volta, quando ero giovane, ci capitava col mio 
povero marito e con gli amici di fare l’alba in qualche festa, e poi si andava a 
mangiare  le  paste  appena  sfornate  in  un  caffè  tanto  carino  qui  all’angolo. 
Esisterà ancora?”
“Andiamo a vedere!”, propone subito con entusiasmo la Rebecchi.
“Ma cosa dite?”, fa Olga riprendendosi dallo smarrimento, “dobbiamo andare 
a casa! Ander a cà, che a quest’ora si saranno già accorti che siamo scappate e 
ci staranno cercando! Ci mettiamo a prendere il caffè adesso?”
“Ma via signora Olga”, dice la contessa Guzzani, “non penserà mica di andare 
a  casa  per  davvero?  Non  abbiamo  mai  avuto  nessuna  possibilità  di  andare  a 
casa. La nostra piccola fuga è solo un piacevole diversivo, un’avventura, tanto 
vale godersela fin che si può”
Olga è fuori di sé: lo sapeva che non c’era da fidarsi della contessa Guzzani, 
quella  vecchiaccia  spocchiosa  e  fascista,  e  la  prenderebbe  anche  volentieri  a 
schiaffi se non fosse che è sulla sedia a rotelle.
“Lei signora contessa la faga un poc com’ag pèr, ma mè a vag a cà”, dice Olga, 
e si avvia furiosa dalla parte del Duomo.
Fatto qualche passo Olga si gira e guarda l’Erminia che è rimasta lì impalata al 
fianco della della Rebecchi. “E tè c’sa fèt?”, chiede Olga.
“Olga”, fa l’Erminia, ed è tutta pallida, “sai, forse la signora contessa potrebbe 
avere ragione. Forse è tutta una pazzia”.
“Va  bene,  ho  capito”,  dice  secca  Olga,  “Brutta  traditrice!”,  e  riprende  a 
camminare tutta impettita verso i gradini del Duomo.
Quando sa che le altre ormai non la vedono più, Olga si siede sul basamento 
del Duomo, quello che è un po’ come una panca di pietra verso la piazza, e si 
prende il viso tra le mani.
E  se  avesse  ragione  quella  vecchia  fascista  della  contessa?  Se  fosse  tutta 
un’illusione quella di andare a casa? Ma se Olga non se lo ricorda neanche più 
dov’è  la  sua  casa!  E  poi,  se  anche  le  tornasse  in  mente,  mettiamo  che  in 
qualche  modo  riesca  a  trovarla  e  si  presenti  alla  porta  di  casa,  a  suonare  il 
campanello:  le  verrebbe  ad  aprire  il  Figliodelolga,  e  lei?  “Eccomi,  sono 
tornata”?
Cosa farebbe lui? La riporterebbe subito alla Pia Casa, ecco cosa farebbe, senza 
pensarci un momento.
“A sun propri ‘na sema”, pensa Olga, e piange, e le lacrime le corrono lungo le 
dita nodose, e alcune cadono sui ciotoli della piazza e sulla sabbia che c’è tra i 
ciotoli.
Ma in quel momento Olga sente chiamare il suo nome: “Olga! Olga! Andàm a 
cà!”,  grida  l’Erminia  che  si  è  pentita  di  averla  abbandonata  e  ha  piantato  in 
asso la contessa e la Rebecchi, e si sbraccia verso Olga attraversando la piazza, 
mentre arranca sui sassi come meglio può con quel suo deambulatore.
Olga sorride, e mentre l’aspetta guarda in alto, e vede le pietre dei mille anni, 
e non può fare a meno di pensare che la piazza è proprio bella, e la città è 
cambiata, è vero, ma è così bella anche lei, lì nella luce del mattino, e Olga un 
po’ alla fine la riconosce, e si dice che forse non è poi così lontana la sua casa, 
che forse è casa sua un po’ anche lì, nella piazza di tutta la vita, con l’Erminia 
che in fondo è proprio una persona come si deve, una buona amica. “Le devo 
dire che le voglio bene, è stata una bella notte”, pensa.
Allora  Olga  si  sente  di  nuovo  bene,  ed  è  felice,  un  po’  stanca  forse,  ma  in 
pace,  e nell’aria pulita del mattino non ce l’ha più neanche tanto per essere 
stata abbandonata.
“T’è  an  caioun”,  dice  Olga  sorridendo  mentre  pensa  al  Figliodelolga  che  a 
quest’ora  dev’essere  lì  che  si  prepara  per  andare  a  lavorare,  poi  si  appoggia 
con la schiena al muro del Duomo e si addormenta.
Quando  Erminia  riesce  finalmente  ad  attraversare  il  mare  della  piazza,  trova 
Olga sorridente e addormentata, e capisce subito che non si sveglierà mai più.
Allora  sorride  anche  l’Erminia,  e  le  mette  la  mano  sulla  fronte  e  pensa  ciao 
Olga, l’è stèda ‘na bela aventura, poi gira il deambulatore e si avvia verso la 
fermata dell’autobus.
Quando  arriva  il  gruppo  degli  inservienti  e  delle  infermiere  della  Pia  Casa 
avvisati da Dario che è riuscito a liberarsi e a dare l’allarme, trovano l’Erminia 
sotto al portico che aspetta il sette, e il Figliodelolga che viene in testa a tutti 
le chiede trafelato: “Dov’è mia madre?”
“E’ andata a casa”, dice l’Erminia.


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