Arto Humo
Olga è andata a casa
Quando il figlio dell’Olga va a trovare la madre reclusa alla Pia Casa la
domenica mattina, al citofono si annuncia proprio così: “chi è?”, gli chiedono,
“sono il Figliodelolga”, dice lui.
Dopo un po’ dalle finestre della Pia Casa si sente l’Olga che fa:
“Portèm a cà!”.
“T’al sèt c’an posia brisa!”, risponde il Figliodelolga.
Allora il Figliodelolga rimane lì un altro po’, ed è tutto arrabbiato perché
l’Olga gli fa delle richieste assurde e a lui gli tocca di trattarla male anche
stavolta, ma poi si alza, fa per darle un bacio come per dire che gli è passata,
che è pur sempre il Figliodelolga, che non ce l’ha più con lei, l’Olga però gira
la testa dall’altra parte e fa così con le spalle, e il Figliodelolga rimane lì con le
braccia lungo i fianchi a guardarla, e la disapprova quella sua mamma cocciuta
che lo fa disperare, poi scuote la testa ed esce dalla porta senza salutare.
Dopo che il Figliodelolga se n’è andato, di solito l’Olga rimane da sola seduta
sul letto, e piange un po’ finché non viene l’ora di scendere giù nel salone
comune per il pranzo. Certi giorni che il Figliodelolga è stato più brusco del
solito, l’Olga non ha neanche voglia di mangiare, e quasi quasi starebbe lì da
sola e piangere un altro po’, ma è domenica, e la domenica a pranzo c’è la
torta.
L’Olga si avvia, e nel corridoio, andando verso l’ascensore montalettighe,
incontra l’Erminia.
L’Erminia è una che ci mette un sacco di tempo a fare tutto il corridoio,
perché deve fare un passettino alla volta con quelle gambette secche
spingendo il deambulatore, sembra un uccello con le scarpe di piombo. Così
l’Erminia ha cominciato che punta una sveglia apposta per partire verso il
salone del pranzo mezz’ora prima del tempo, ma finisce lo stesso che arriva
sempre dopo tutte le altre, e d’altra parte è anche normale, pensa, quando ti
ritrovi con delle gambe come le sue.
Quando non l’avevano ancora chiusa nella Pia Casa, e l’Erminia viveva con sua
figlia in una villetta a schiera tanto carina, andava molto fiera delle sue gambe
doloranti, così fiera che delle volte per farle vedere ai nipoti li chiamava a
raccolta, tirava un po’ su l’orlo della gonna e mostrava tutta una geografia di
bitorzoli e vene varicose rosse e blu, che sembravano certe mappe antiche
disegnate sulla cartapecora, con il corso tortuoso di qualche fiume, il Nilo
magari, e questi fiumi scorrevano in mille anse varicose e rivoli tumefatti in
mezzo a un deserto traslucido bianco e giallo, e si perdevano poi in quella
pelle arida in venuzze sottili bluastre, poi più niente di vivo, poi hic sunt
leones.
I nipoti davanti a quello spettacolo scappavano da tutte le parti lanciando
gridolini schifati, finché un giorno la figlia dell’Erminia non ne aveva avuto
abbastanza, e con la scusa di un certo viaggio che dovevano fare lei e suo
marito, l’aveva portata alla Pia Casa e non era più tornata a riprenderla.
“Alaura? Com’a’st’et?”, fa l’Erminia quando l’Olga le passa davanti.
“Com’a vot c’a stagh’ia?”, dice l’Olga, “a voi andèr a cà!”.
Intanto sono arrivate all’ascensore montalettighe, e l’Olga preme la chiamata.
“Anca mè, a n’in pos piò”, dice l’Erminia guardando sconsolata il pavimento
mentre aspettano che si aprano le porte scorrevoli.
Nell’ascensore ci sono già altre due signore, del tipo poco socievole, con la
spocchia di quelle che stanno su al piano delle Signore Bene, che fanno un
sacco di storie per far entrare il deambulatore dell’Erminia, e fanno delle
smorfie mica tanto simpatiche e borbottano tra loro per tutta la discesa, e
anche l’Olga borbotta: “a voi andèr a cà”.
A pranzo zuppa di carote e arrosto di vitello, roba tenera per denti fragili,
denti persi e denti falsi.
Al momento del dolce davanti alle signore della Pia Casa compaiono piattini
bianchi con una fetta di torta sottile sottile, per tutte, tranne che per l’Olga:
davanti all’Olga il piattino bianco con la scritta blu “Pia Casa” non porta la
solita fetta di torta della domenica, nel piattino che l’inserviente ai tavoli
mette davanti alla faccia sbalordita di Olga c’è solo una mela tagliata a spicchi.
“E questa roba cosa sarebbe?”, chiede l’Olga che non riesce a credere ai suoi
occhi, “Ordine del dottore Olga”, le dice l’inserviente, “niente torta, per via
della glicemia”.
Questo è un colpo che Olga non si aspettava proprio, non la torta della
domenica, questo no, si alza in piedi: “Mè a’n la voi brisa c’la roba lè”, dice
quasi gridando.
Le altre vecchie, quelle che ancora ci sentono almeno, la guardano con gli
occhi sbarrati, qualche dentiera cade sui tavoli.
“Ah, non la vuoi?”, fa l’inserviente, “Va bene Olga, nessun problema”, e prende
il piattino con gli spicchi di mela.
Olga è furiosa, si avvia col passo più deciso che può verso l’uscita, risoluta a
tornarsene in camera.
“Aspetta Olga”, prova a dirle Erminia, “vengo con te”, ma le gambe
dell’Erminia non le permettono di seguirla, preferiscono restare lì sotto il
tavolo loro, davanti al piattino con la fetta di torta sottile.
Più tardi Erminia, dopo la lunga traversata del corridoio, bussa alla porta della
stanza di Olga, e siccome nessuno le risponde entra lo stesso. Olga è seduta
sul letto, si tiene la testa tra le mani e piange in silenzio. Poi si accorge della
presenza di Erminia e la guarda: “Mè a vag a cà!”, le dice.
Per qualcosa che non saprebbe definire l’Erminia sa che questa volta Olga non
sta scherzando, questa volta si va a casa per davvero.
“Stammi a sentire Olga”, le fa allora Erminia, “io è un bel po’ che ci penso, e
avrei già un’idea, un piano per così dire”. Olga ha un lampo negli occhi, in un
attimo Erminia ha tutta la sua attenzione: “Dì mò”, fa Olga.
Il piano dell’Erminia è semplice: ha studiato per bene i turni degli inservienti,
dice, e c’è il mercoledì che, dato che la direzione cerca di risparmiare e non
ha sostituito uno che è andato in pensione, tutto il piano terra resta
incustodito, e al piano di Olga ed Erminia c’è solo Dario, e Dario, si sa, dorme
tutta la notte.
Dario è il più odiato degli inservienti, sulla trentina, lavora alla Pia Casa da
due o tre anni. E’ sgarbato con tutte le signore e quando fa il turno di notte
invece di girare a controllare se tutto va bene, si chiude nella stanza in fondo
al corridoio e dorme come se niente fosse, che hai un bel da chiamarlo se hai
bisogno di cambiare un pannolone o vuotare una padella, “E’ della bassitalia”,
dicono le signore del piano delle Signore Bene con l’aria di saperla lunga.
Comunque sia, se si vuole andare a casa, il mercoledì è il giorno, dice
l’Erminia.
“E la chiave?”, chiede Olga, che sa bene che le inservienti di notte hanno
l’abitudine di chiudere a chiave il portone che dà sulla strada.
“La chiave la n’è brisa un problema”, dice Erminia trionfante.
Il fatto è che al piano delle Signore Bene vive anche la contessa Guzzani, che
sta sulla sedia a rotelle, e la contessa Guzzani è di quei Guzzani cui
apparteneva in origine il palazzo della Pia Casa, che quando morì il nonno
della contessa, il vecchio Guzzani, lo lasciò alla città perché ne facesse un
ricovero per le signore, e la contessa, quando è rimasta in sedia a rotelle, che i
parenti, soprattutto quella serpe di sua nuora, si misero d’accordo per
mollarla lì, in quello che una volta era stato il palazzo di famiglia, lei si era
portata dietro una copia delle chiavi che aveva fin da bambina, e la serratura
del portone non era mai stata cambiata in tutti quegli anni, e così...
Insomma, la chiave, dice Erminia, la n’è brisa un problema.
“Perché, ce la dà?”, chiede allora Olga, che la contessa Guzzani la vede come il
fumo negli occhi.
“No, dice che vuole venire anche lei”, risponde Erminia.
“Come sarebbe che vuol venire anche lei?”, fa Olga, “piutost à stag chè! Tal sèt
che la signora contessa era anche fascista? Vót c’la purtamm seco che mè a
i’era spuseda con un partigian?”
“Non fare la stupida Olga, ragiona”, dice Erminia, “che senza la chiave non
andiamo da nessuna parte”
“Mo vacca boia” fa Olga, ma sa bene che Erminia ha ragione: “dì a c’la vecia
fasesta che mercoledì sera ce ne andiamo a casa, con o senza di lei”.
Mercoledì alla Pia Casa è un giorno glorioso, che a prima vista appare
normale, e comincia come tutti i giorni con giunture scricchiolanti e lunghe
catene di pillole colorate da prendere con un po’ d’acqua prima di colazione,
ma giorno speciale per Olga, per Erminia e per la signora contessa Guzzani,
che oggi si va a casa.
La sera sembra non arrivare mai, il pomeriggio è lunghissimo di scarabeo e
pinnacoli, con Olga, campionessa assoluta e incontrastata del terzo piano, che
riesce a perdere una partita con la Rebecchi, una che prima di essere portata
alla Pia Casa non sapeva nemmeno giocare, e anzi diceva che lei,
professoressa in pensione, odiava i giochi delle carte come si odia il purè di
piselli insipido, e avrebbe sempre preferito un buon libro di Baricco a una
partita di briscola.
“Olga, attenta”, le dice allora Erminia, “se perdi ancora con la Rebecchi la
gente comincerà a pensare che c’è
qualcosa di strano”.
“Tanto non ho più voglia di giocare”, dice Olga nervosa sbattendo le carte sul
tavolo e alzandosi per andare in camera, e in camera Olga aspetta il tramonto
e l’ora che lei, Erminia e la signora contessa Guzzani si troveranno alla porta
dell’ascensore al terzo piano, e l’ora che hanno concordato sarà le undici e
mezza in punto, quando Dario il sorvegliante dormirà profondamente con il
televisore acceso nella stanza di servizio.
Olga passa le ore successive a preparare le cose da portare con sé: poca roba,
una piccola valigia appena di ricordi, vecchie fotografie, le lettere che le aveva
scritto suo marito quando erano fidanzati. Non ha bisogno di nient’altro Olga,
e soprattutto non vuole portare niente che le ricordi la Pia Casa, quel posto
dove l’hanno gettata come si butta una cosa che non serve più.
Alle dieci Olga è già in piedi accanto alla porta, che lancia occhiate furtive in
corridoio ogni cinque minuti: tutto a posto, poco viavai, il solito, qualche
vecchia persa, qualche infermiera con il suo carico di pillole, niente di strano.
Verso le undici si sente il cigolio del deambulatore di Erminia che affronta a
tutta velocità il corridoio, per le undici e mezza ce la farà, pensa Olga, sarà
perfettamente in orario.
Alle undici e mezza Olga esce in corridoio, al momento esatto in cui Erminia
passa in corrispondenza della sua porta, fanno insieme i dieci passi che
separano la stanza di Olga dall’ascensore, e a Olga sembrano milioni di
milioni, ma sono passi che portano a casa.
Olga ed Erminia ora davanti alle porte dell’ascensore aspettano che dal piano
delle Signore Bene arrivi la signora contessa Guzzani, poi tutte e tre
scenderanno verso la libertà.
Ma è in questo momento che da dietro l’angolo, stropicciandosi gli occhi con
l’aria assonnata, compare Dario il sorvegliante. Ci mette qualche secondo a
realizzare che qualcosa non va, ma alla fine capisce: “Signore, cosa fate in giro
a quest’ora? Ognuna in camera sua, subito e senza storie”, dice.
“MAI!” grida allora Erminia, e si dirige col deambulatore verso Dario che,
sorpreso dalla lenta furia di Erminia, indietreggia.
In quell’attimo si aprono le porte dell’ascensore, e dentro ci sono la signora
contessa Guzzani, sulla sedia a rotelle e vestita da ballo, e dietro di lei,
spingendo la carrozza, la Rebecchi in qualità di dama di compagnia.
La signora contessa Guzzani capisce la situazione al volo e con nobiliare piglio
guerriero subito grida: “Avanti Savoia!”.
La Rebecchi non se lo fa dire due volte, e si lancia in avanti, e a quel punto
anche Olga si scuote e, riavutasi dallo stupore, la segue con tutta la velocità di
cui è capace.
In un attimo superano Erminia che intanto ha continuato ad avanzare a
piccoli passi, e sono addosso a Dario che colto di sorpresa non riesce a
difendersi, e anzi indietreggiando inciampa negli zoccoli verdi da ospedale e
cade pesantemente sulla schiena nel corridoio.
Olga e la Rebecchi gli sono sopra, e l’Erminia, che finalmente ha raggiunto
l’obiettivo gli blocca le gambe col deambulatore.
La signora contessa Guzzani intanto è rimasta sulla sedia a rotelle accanto alla
porta dell’ascensore, e continua a gridare ordini e ad incitarle alla pugna, e la
lotta è feroce, grugniti e digrignar di dentiere.
“Erano trent’anni che non stavo sopra a un uomo”, grida la Rebecchi al colmo
di un’eccitazione schiumosa di vittoria mentre lei e Olga col loro peso
bloccano a terra un terrorizzato Dario incapace di qualsiasi reazione.
In quel mentre si apre la porta di una stanza e una vecchina si sporge: “Cos’è
questa confusione?”, chiede. La signora contessa Guzzani non perde tempo e
ordina alla vecchina di andare a prendere garza e cerotti nella stanza delle
infermiere, e di portarli a Olga, Erminia e alla Rebecchi, che legano e
imbavagliano il povero sorvegliante.
“Andiamo a casa!” dice a titolo di spiegazione l’Erminia trionfante alla
vecchina stupefatta mentre le porte dell’ascensore si chiudono sulle quattro
fuggiasche e su Dario preso in ostaggio.
“Cosa ne facciamo di lui?”, chiede Olga mentre l’ascensore scende al piano
terra.
“Lo portiamo con noi”, dice risoluta la signora contessa Guzzani, “volete che
si liberi e dia l’allarme?”
Arrivate di sotto la signora contessa Guzzani consegna con fare solenne a Olga
un mazzo di chiavi legate con un nastro di raso rosa antico: “signora Olga, a
lei l’onore”, dice la contessa Guzzani, Olga non riesce a trattenere un sorriso.
Mentre le altre fanno sedere Dario su una sedia a rotelle, Olga apre il pesante
portone.
L’aria fresca della notte entra nell’atrio della Pia Casa, e ha profumo di vittoria
e di libertà
Olga controlla la strada: non c’è nessuno, si può andare, e in un attimo le
fuggiasche sono fuori.
Si incamminano per la città deserta, con Olga che spinge Dario sulla sedia a
rotelle, la Rebecchi che spinge la signora contessa Guzzani mentre lei tiene
una conferenza sull’architettura del palazzo avito, e Erminia dietro, che viene
arrancando col suo deambulatore.
Olga guarda le finestre dei palazzi, la città che le dorme intorno è la città dove
è nata e ha vissuto tutta la vita, ma non la riconosce più, le sembra diversa, e
chissà quanto tempo ha passato chiusa là dentro alla Pia Casa, pensava fossero
passate poche settimane, ma ora crede che forse potevano essere mesi, o
anni. Ci sarebbe morta là dentro, lo sentiva. “Andàm in piaza”, dice allora Olga
che all’improvviso ha voglia di vedere se il Duomo e la Ghirlandina, almeno
loro, sono ancora lì dove li aveva lasciati nei suoi ricordi.
Dalla sedia a rotelle sulla quale l’hanno legato con parecchi giri di cerotto
intanto Dario il sorvegliante mugola qualcosa, e si agita, e si vede che
vorrebbe liberarsi.
“Mo tès! E basta con sta caciara!”, gli fa l’Erminia che sbuffa cercando di
tenere il passo.
“La questione è spinosa”, dice la signora contessa Guzzani, il cui secondo
marito era avvocato penalista “che l’aver prelevato il qui presente Dario,
seppur con le attenuanti del caso, potrebbe configurare il reato di sequestro
di persona”.
“Echissenefrega!”, grida da dietro Erminia che si sente libera e viva come le
sembra di non essere stata mai.
Ma Olga e la Rebecchi, seppure a malincuore, devono ammettere che la
signora contessa non ha tutti i torti, e poi in effetti se si vuol far perdere le
proprie tracce, portarsi dietro un rappresentante dell’istituzione dalla quale si
è in fuga non è poi sta gran idea.
Così parcheggiano Dario ancora legato sulla sedia a rotelle accanto a un
cassonetto della differenziata e lo lasciano lì.
Arrivano poi dove Corso Canalgrande incrocia la via Emilia, e girano a sinistra
verso Piazza Grande. Mentre camminano al centro della strada, sui cubetti di
porfido rosso Olga, Erminia, la Rebecchi e la contessa a rotelle si trovano
inondate dalla luce dell’alba. “Stiamo andando a casa Olga? Ci andiamo
davvero?”, chiede Erminia.
“Sì Erminia, andàm a cà”, risponde Olga, e sorride nella luce dorata, e si sente
giovane e forte all’improvviso, come quando il sabato pomeriggio lì sulla via
Emilia e sotto i portici faceva le vasche avanti e indietro al braccio del suo
fidanzato, quello che aveva combattuto in montagna e che sarebbe diventato
suo marito, ed Erminia la guarda, e vede che Olga ha di nuovo vent’anni, e
due lunghe gambe veloci e ginocchia che non scricchiolano e denti bianchi e
forti per sorridere alla vita e prenderla a morsi.
“Come sei bella Olga!”
“Anche tu Erminia”, e ormai sono in Piazza Grande.
“Andàm a cà Olga”, dice l’Erminia,
“Andiamo Erminia”, dice Olga, ma si guarda intorno perché a dire il vero alla
sua casa non si ricorda tanto bene come ci si arriva.
“Non era tanto lontana dal Duomo”, pensa Olga, ma non è più molto sicura.
Olga pensa che forse si potrebbe prendere un autobus, e chiedere al
conducente magari. Sì, ma quale autobus? E poi, ci saranno ancora gli
autobus? E’ tanto che non ne prende uno, e si sente d’improvviso molto
confusa.
“Avrei un certo languorino”, dice in quel momento la signora contessa
Guzzani, “mi ricordo che una volta, quando ero giovane, ci capitava col mio
povero marito e con gli amici di fare l’alba in qualche festa, e poi si andava a
mangiare le paste appena sfornate in un caffè tanto carino qui all’angolo.
Esisterà ancora?”
“Andiamo a vedere!”, propone subito con entusiasmo la Rebecchi.
“Ma cosa dite?”, fa Olga riprendendosi dallo smarrimento, “dobbiamo andare
a casa! Ander a cà, che a quest’ora si saranno già accorti che siamo scappate e
ci staranno cercando! Ci mettiamo a prendere il caffè adesso?”
“Ma via signora Olga”, dice la contessa Guzzani, “non penserà mica di andare
a casa per davvero? Non abbiamo mai avuto nessuna possibilità di andare a
casa. La nostra piccola fuga è solo un piacevole diversivo, un’avventura, tanto
vale godersela fin che si può”
Olga è fuori di sé: lo sapeva che non c’era da fidarsi della contessa Guzzani,
quella vecchiaccia spocchiosa e fascista, e la prenderebbe anche volentieri a
schiaffi se non fosse che è sulla sedia a rotelle.
“Lei signora contessa la faga un poc com’ag pèr, ma mè a vag a cà”, dice Olga,
e si avvia furiosa dalla parte del Duomo.
Fatto qualche passo Olga si gira e guarda l’Erminia che è rimasta lì impalata al
fianco della della Rebecchi. “E tè c’sa fèt?”, chiede Olga.
“Olga”, fa l’Erminia, ed è tutta pallida, “sai, forse la signora contessa potrebbe
avere ragione. Forse è tutta una pazzia”.
“Va bene, ho capito”, dice secca Olga, “Brutta traditrice!”, e riprende a
camminare tutta impettita verso i gradini del Duomo.
Quando sa che le altre ormai non la vedono più, Olga si siede sul basamento
del Duomo, quello che è un po’ come una panca di pietra verso la piazza, e si
prende il viso tra le mani.
E se avesse ragione quella vecchia fascista della contessa? Se fosse tutta
un’illusione quella di andare a casa? Ma se Olga non se lo ricorda neanche più
dov’è la sua casa! E poi, se anche le tornasse in mente, mettiamo che in
qualche modo riesca a trovarla e si presenti alla porta di casa, a suonare il
campanello: le verrebbe ad aprire il Figliodelolga, e lei? “Eccomi, sono
tornata”?
Cosa farebbe lui? La riporterebbe subito alla Pia Casa, ecco cosa farebbe, senza
pensarci un momento.
“A sun propri ‘na sema”, pensa Olga, e piange, e le lacrime le corrono lungo le
dita nodose, e alcune cadono sui ciotoli della piazza e sulla sabbia che c’è tra i
ciotoli.
Ma in quel momento Olga sente chiamare il suo nome: “Olga! Olga! Andàm a
cà!”, grida l’Erminia che si è pentita di averla abbandonata e ha piantato in
asso la contessa e la Rebecchi, e si sbraccia verso Olga attraversando la piazza,
mentre arranca sui sassi come meglio può con quel suo deambulatore.
Olga sorride, e mentre l’aspetta guarda in alto, e vede le pietre dei mille anni,
e non può fare a meno di pensare che la piazza è proprio bella, e la città è
cambiata, è vero, ma è così bella anche lei, lì nella luce del mattino, e Olga un
po’ alla fine la riconosce, e si dice che forse non è poi così lontana la sua casa,
che forse è casa sua un po’ anche lì, nella piazza di tutta la vita, con l’Erminia
che in fondo è proprio una persona come si deve, una buona amica. “Le devo
dire che le voglio bene, è stata una bella notte”, pensa.
Allora Olga si sente di nuovo bene, ed è felice, un po’ stanca forse, ma in
pace, e nell’aria pulita del mattino non ce l’ha più neanche tanto per essere
stata abbandonata.
“T’è an caioun”, dice Olga sorridendo mentre pensa al Figliodelolga che a
quest’ora dev’essere lì che si prepara per andare a lavorare, poi si appoggia
con la schiena al muro del Duomo e si addormenta.
Quando Erminia riesce finalmente ad attraversare il mare della piazza, trova
Olga sorridente e addormentata, e capisce subito che non si sveglierà mai più.
Allora sorride anche l’Erminia, e le mette la mano sulla fronte e pensa ciao
Olga, l’è stèda ‘na bela aventura, poi gira il deambulatore e si avvia verso la
fermata dell’autobus.
Quando arriva il gruppo degli inservienti e delle infermiere della Pia Casa
avvisati da Dario che è riuscito a liberarsi e a dare l’allarme, trovano l’Erminia
sotto al portico che aspetta il sette, e il Figliodelolga che viene in testa a tutti
le chiede trafelato: “Dov’è mia madre?”
“E’ andata a casa”, dice l’Erminia.