Arto Humo
Le case degli altri


Nei giorni che di mestiere facevo il topo di appartamento, c’erano delle 
volte che dopo avere ripulito l’ultima casa ci si trovava all’alba sui tetti 
del  centro  storico  con  quella  banda  che  avevo  allora,  fatta  di  fratelli 
polacchi integralisti cattolici.
Allora il sole appariva glorioso da dietro i palazzi della prima periferia, e 
io dicevo: “Non è bello?”
“Sì, è bello”, rispondeva Bratumil, il maggiore, “ma il sole che abbiamo 
in  Polonia!  E’  almeno  tre  volte  più  grande  e  più  luminoso,  e  certe 
mattine l’alba sembra mezzogiorno.”
“Certo”, dicevo io allora, “ma vuoi mettere con un’aria così fina? Non è 
fina l’aria della mattina?”
“E’ molto fina”, controbatteva Leszek, il fratello più giovane, quello che 
delle volte ungevamo con lo strutto per farlo passare dagli abbaini più 
piccoli  e  dalle  canne  fumarie.  “In  Polonia  però,  delle  volte,  la  mattina 
l’aria è così fina che stando in piedi su un tetto puoi vedere Dio.”
“Ma  un  mare  di  tetti  rossi  bello  come  questo,  ce  l’avete  in  Polonia?”, 
chiedevo io certo di sapere già la risposta.
“Un  mare?”,  faceva  il  fratello  di  mezzo  che  si  chiamava  Swietomierz 
Teofil Zacharjasz Wojtek, “un oceano di tegole rosse abbiamo! E quando 
c’è vento le onde son alte anche cinque o sei metri, che gli spazzacamini 
si devono legare alle antenne della tivù per non annegare!”
Così poi restavamo in silenzio, a guardare il giorno che si faceva strada 
tra  gli  ultimi  stracci  laceri  di  nuvole  della  notte,  finché  dai  lucernai  lì 
sotto non cominciava ad arrivare profumo di caffè, e tutte le madonne e 
i  sacramenti  di  quelli  che  avevamo  ripulito  di  fedi  nuziali  e  ricordi 
dorati, e allora sui tetti, tra i polacchi devoti, era tutto un gran farsi segni 
della croce e scambiarsi sguardi indignati.
Ci  piaceva  molto  allora  visitare  le  vostre  case  senza  invito.  Entravamo, 
approfittando  di  un  portone  aperto  e  su  per  le  scale  deserte 
raggiungevamo i tetti, e dopo un po’ che stavamo lassù Leszek, che era 
quello impaziente di andare, diceva: “al lavoro”, e così cominciavamo a 
calarci  negli  abbaini,  sui  terrazzi,  dai  lucernai.  A  volte  entravamo  da 
buchi  così  piccoli  che  neanche  il  fumo  ci  sarebbe  passato,  ma  io  e  i 
polacchi  eravamo  più  che  fumo,  dei  professionisti,  e  da  professionisti 
quando entravamo in una casa subito ci guardavamo intorno per farci 
l’idea del lavoro.
A me così capitava di notare il colore delle pareti, e delle volte dicevo: 
“guarda questo verde pistacchio, non ci sta mica male qui in corridoio”.
“E’ un bel verde”, faceva subito uno dei fratelli polacchi, “ma in Polonia 
un verde così lo usiamo sì e no per i muri del pollaio, per le galline. In 
casa, in Polonia, solo foglia d’oro e fili d’argento abbiamo sulle pareti.”
“E questo paesaggio?”, dicevo io allora per divertirmi un po’ indicando 
un  quadro  nel  tinello,  “non  ti  sembrano  belli  questi  boschi  e  queste 
montagne?”
I fratelli allora sospiravano come un sol polacco, e si facevano tristi, e 
uno  diceva:  “Ah!  I  boschi  della  Polonia”,  e  poi  facevano  degli  sguardi 
polacchi e cupi, che per un po’ non riuscivi più a cavargli altro.
Allora io per distrarli mandavo Bratumil in giro per la casa, a controllare 
che davvero non ci fosse nessuno e a contare i libri sugli scaffali, perché 
per  esperienza  sapevamo  che  nelle  case  dove  c’erano  molti  libri 
avremmo trovato pochi gioielli.
“Solo  libri  di  cucina”,  diceva  Bratumil  dall’altra  stanza,  ed  era  buon 
segno,  che  coi  libri  di  cucina  venivano  spesso  monete  d’oro  in  una 
piccola cassaforte nascosta sotto al cassetto dei calzini o nell’armadio.
Oppure Bratumil diceva: “un Baricco e un Fabio Volo”.
“Nient’altro?”,  chiedevo  io.  “Nient’altro”,  diceva  Bratumil,  e  allora 
sapevamo che avremmo trovato denaro contante in cucina nel barattolo 
dello zucchero e chiavi di auto costose in garage.
“Io non capisco come fate a leggere così poco”, diceva Swietomierz, “in 
Polonia in ogni casa ci sono migliaia di libri, che non sappiamo più dove 
metterli,  e  la  gente  quando  si  siede  a  tavola,  invece  che  sulle  sedie  si 
mette  seduta  su  delle  pile  di  enciclopedie,  e  ce  ne  sono  sotto  ai  letti, 
negli armadi, in bilico sui lavandini, e nella vasca da bagno libri di storia 
e di scacchi.” 
“Hitokoto”,  gridava  in  quel  momento  Bratumil,  “sul  comodino”,  e  i 
polacchi  scuotevano  scontenti  quelle  loro  teste  bionde  e  rotonde, 
perché si sa che in una casa con Hitokoto sui comodini non c’è niente, 
ma proprio niente che valga la pena portare via.
Allora  uscivamo  piano  piano,  uno  dopo  l’altro,  dal  pertugio  dal  quale 
eravamo entrati, facendo attenzione a non sporcare.
Leszek,  il  più  giovane  dei  tre,  aveva  quasi  sempre  fame,  così  c’erano 
delle  volte  che  mentre  noi  rovistavamo  nei  cassetti  e  nelle  scatole 
dell’IKEA, lui si fermava in cucina, e nel frigo trovava delle salsicce e del 
latte freddo.
“Non  dovresti  mangiare  carne  cruda”,  gli  dicevo  allora  io,  “non  di 
maiale. Finirai col prenderti qualche schifezza.”
“Non ti preoccupare”, diceva Bratumil mentre guardava se nel frigo per 
caso ci fosse anche una birra, “non gli fa male. In Polonia i maiali delle 
volte li mangiamo che sono ancora vivi, e le salsicce quando le addenti 
si  muovono  ancora,  e  sono  tre  volte  più  grandi  e  più  saporite  delle 
vostre”, e infatti poi non gli succedeva mai niente.
Eravamo  dei  professionisti  allora,  e  cercavamo  sempre  di  essere  sicuri 
che quando entravamo in una casa non ci fosse nessuno degli abitanti, 
ma capitava a volte di sbagliarsi.
Ci rimanevano male in quei casi i fratelli, perché per come la vedevano 
loro, ripulire una casa mentre i proprietari erano assenti non era poi sto 
gran peccato, ma se succedeva di spaventare della gente, che si trovava 
di fronte all’improvviso degli estranei biondi in casa propria, allora era 
una cosa più grave, di quelle che Dio se ne aveva a male.
Così  ci  stavamo  molto  attenti,  ma  di  sbagliarsi  capitava,  come  quella 
volta che avevamo già quasi finito il lavoro e Swietomierz aveva aperto la 
porta  di  una  stanzetta  e  quasi  era  caduto  per  terra  per  lo  spavento  e 
aveva cominciato a farsi dei gran segni della croce, perché la stanzetta 
era piena di strumenti per fare ginnastica, tipo quelle panche strane coi 
pesi e le carrucole, e su una bicicletta da camera c’era un uomo calvo di 
mezz’età,  con  una  tuta  di  poliestere  blu  con  le  righe  sui  pantaloni  e 
sulle maniche, e l’uomo era morto da almeno tre giorni che cominciava 
già a puzzare un po’, ed era rimasto seduto sulla bicicletta, e solo gli era 
caduta  la  testa  sul  manubrio.  Allora  abbiamo  rimesso  tutto  a  posto,  e 
abbiamo passato anche l’aspirapolvere e il mocio.
“E’ una cosa brutta prendere le cose di un morto”, avevano delle regole 
precise Bratumil e i suoi fratelli, molto precise.
Un’altra  volta  che  ci  eravamo  sbagliati  è  stato  quando  a  metà  di  un 
lavoro ci siamo trovati di fronte una vecchina che usciva dalla porta del 
bagno,  e  lei  guardando  Swietomierz  aveva  chiesto:  “Siete  quelli  del 
comune?  Quelli  dei  servizi  sociali?”.  “Certo”,  aveva  detto  Swietomierz 
che  è  uno  coi  riflessi  pronti,  e  aveva  subito  posato  una  cornice 
d’argento con una foto che stava per infilare nel borsone che portava a 
tracolla.
Poi  con  l’accento  più  polacco  che  poteva  aveva  aggiunto:  “ci  manda 
proprio il comune, come possiamo aiutarla signora?”. La vecchina allora, 
che  si  chiamava  Signora  Luisa,  ci  aveva  fatto  sistemare  il  televisore, 
perché era una settimana che non si vedeva più il primo canale, e poi 
aveva chiesto se per favore potevamo spiegarle la bolletta del gas, che è 
poi vero che non ci si capisce mai niente.
Prima  di  salutarci  la  Signora  Luisa  ci  aveva  offerto  delle  caramelle  al 
limone frizzante e dei biscotti e ci aveva anche dato due euro a testa di 
mancia.
“Peccato  per  la  cornice  d’argento  della  vecchia”,  aveva  detto 
Swietomierz  scendendo  le  scale,  perché  le  cornici  d’argento  erano  un 
po’  la  sua  passione,  “c’era  la  foto  di  un  ragazzo,  sarà  stato  un  nipote? 
Secondo  me  è  uno  di  quelli  che  non  la  vanno  mai  a  trovare,  povera 
vecchia, non era mica antipatica, eh?”
“Ci avete mai pensato che noi portiamo via i ricordi della gente?”, avevo 
chiesto io all’improvviso, “vi capita mai di sentirvi in colpa per questo?”
“Beh,  no”,  aveva  detto  Leszek,  “tanto  sono  cose  che  avrebbero 
dimenticato comunque prima o poi. Noi affrettiamo solo un po’ la cosa, 
in fondo gli diamo una mano.” 
“Se ci pensi bene”, era intervenuto allora Bratumil, “se ci pensi bene ti 
accorgerai che è una cosa stupida affidare i ricordi alle cose: le cose si 
perdono,  si  consumano,  o  te  le  possono  rubare,  e  finisce  che  con  le 
cose perdi anche i ricordi.”
Poi aveva continuato: “Noi, in Polonia abbiamo un sistema diverso per 
non scordarci le cose, facciamo così: quando c’è qualcosa che proprio 
non  vorremmo  dimenticare,  allora  facciamo  il  giro  di  tutti  quelli  che 
conosciamo,  e  ad  ognuno  ne  raccontiamo  un  pezzetto.  Così  se  poi  ci 
capita che abbiamo bisogno di un ricordo, ci basta invitare tutti a pranzo 
o a cena, e si mangia e si beve come solo in Polonia, e alla fine, quando 
gli ospiti sono allegri e contenti, si batte con la forchetta su un bicchiere 
per  attirare  l’attenzione,  e  si  chiede  ai  presenti  quello  che  si  vuole 
ricordare, e a turno tutti si alzano e ti restituiscono il pezzetto di ricordo 
che gli avevi affidato.”
“Mi  sembra  un  gran  bel  sistema”,  avevo  detto  io,  “perché  in  questo 
modo  nessuno  può  portarti  via  i  ricordi,  nemmeno  dei  professionisti 
come  noi,  che  entrano  come  il  fumo  e  la  nebbia  dalle  fessure,  perché 
rimane tutto lì, condiviso tra gli amici e le persone che ti vogliono bene, 
e nulla si perde più, giusto?”
“Esatto, proprio così!”, aveva detto Swietomierz, “anche se a dire il vero 
ogni  tanto  capita  che  durante  il  pranzo  qualcuno  esageri  un  po’  col 
bere,  e  allora  i  ricordi  tendono  a  diventare  confusi,  perché  i  pezzi  si 
mescolano a causa della birra, della vodka e del vetro dei bicchieri che 
deforma le cose, e così c’è chi si confonde un po’ e magari invece di un 
ricordo tuo ti restituisce un pezzo di ricordo di qualcun’altro, e alla fine, 
nel tempo, i ricordi vengon fuori tutti mischiati, che la gente finisce col 
vivere un po’ delle vite di tutti gli altri. Se ci pensi è un bel casino, ma 
tutto sommato non è neanche così importante, che tanto poi son tutti 
contenti  lo  stesso  perché  comunque  hanno  mangiato  bene  e  bevuto 
anche meglio, anzi, più la cosa vien fuori confusa, più vuol dire che è 
stata una bella festa”.
“Non ci avevo pensato”, avevo detto io.
Dopo, di questa questione dei ricordi non ne avevamo più parlato, fino 
a quella volta che entrando in una casa dalla porta­finestra aperta su un 
balcone, avevamo trovato un cane da guardia buonissimo, che Bratumil 
ci aveva fatto subito amicizia, e questo cane uggiolava, e saltava su tutto 
contento e scodinzolava, e gli leccava le mani come se lui e quel polacco 
dalla testa rotonda fossero stati da sempre i più grandi amici del mondo, 
e Bratumil allora aveva detto che questo cane gli ricordava un cane nero 
che aveva avuto da piccolo, che si chiamava Piorun, che in polacco vuol 
dire Lampo.
Swietomierz  però  aveva  detto  che  si  sbagliava,  perché  da  piccolo 
Bratumil  aveva  sì  avuto  un  cane,  ma  il  cane  non  era  mica  nero:  era 
marrone,  con  una  macchia  bianca  intorno  a  un  occhio,  e  non  si 
chiamava Piorun, ma Plama, che in polacco vuol dire appunto Macchia.
Leszek allora aveva detto che gli dispiaceva molto contraddire i suoi due 
fratelli  maggiori,  che  normalmente  non  si  sarebbe  mai  permesso  di 
mettere  in  dubbio  la  loro  parola,  ma,  date  le  circostanze,  doveva 
proprio  far  presente  che  in  realtà  il  cane  di  Bratumil  non  si  chiamava 
neanche Plama, ma Cienki, che in polacco significa lo smilzo, e che non 
era nemmeno un cane, ma un gatto tigrato di pelo rosso e molto, molto 
grasso.
E’  stato  così  che  ho  capito  che  questo  sistema  polacco  di  preservare  i 
ricordi, alla prova dei fatti faceva veramente acqua da tutte le parti.
Bratumil  comunque  si  è  tenuto  il  cane  da  guardia  buonissimo,  lo  ha 
chiamato  Urzula,  come  una  sua  cugina  che  ha  aperto  una  lavanderia 
negli  Stati  Uniti,  perché  poi  si  è  scoperto  che  il  cane  era  femmina  e 
Bratumil dice che le assomiglia parecchio.
Questa di portarsi a casa il cane è stato uno strappo alla regola, perché è 
una  di  quelle  cose  che  secondo  Bratumil,  e  Swietomierz,  e  Leszek 
dispiacciono molto a Dio, e anche se di animali domestici all’epoca ne 
abbiamo  incontrati  parecchi,  perlopiù  cani  e  gatti,  in  genere  bestie 
ragionevoli e simpatiche, li abbiamo sempre lasciati stare, tranne il cane 
Urzula, che era una cosa sentimentale, di nostalgia e ricordi, di cugine 
lontane proprietarie di lavanderie.
Così  poi  anche  quel  giorno,  come  sempre,  alla  fine  del  lavoro,  verso 
l’alba, ci siamo ritrovati su un tetto, e sotto di noi il mare di tegole rosse 
cominciava di nuovo a formare onde e ad agitarsi nella prima luce del 
mattino, e mentre guardavo in lontananza nell’aria cristallina per vedere 
se per caso, per una volta almeno, anche io fossi riuscito a scorgere Dio, 
Bratumil accarezzava piano il cane e gli diceva dolci paroline polacche 
all’orecchio,  e  Leszek,  seduto  sul  bordo,  le  gambe  penzoloni,  si 
accendeva una sigaretta.
“Devo  andare”,  ha  detto  Swietomierz,  “che  devo  passare  in  farmacia 
subito appena apre a comprare le pillole della pressione per la Signora 
Luisa”.


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