Stefania Bonacini
Al piop negher

Ebe nascose il vecchio mastello zeppo di panni da sciacquare in fondo 
al canneto e prese a saltellare sui massi vischiosi del fiume, sollevando 
con civettuola grazia i lembi del vestito logoro che, comunque, non si 
sarebbe bagnato poiché da tempo non le stava più.
Lui la seguiva con passo nervoso, costeggiando la riva bianca e sassosa, 
si  celava  alla  vista  proteggendosi  tra  siepi  e  boschetti.  Si  fermava  di 
colpo, fiutava l'aria, dirigeva lo sguardo verso un punto preciso, captava 
fruscii e rumori e li separava, per analizzarli, dalla sinfonia sonora della 
natura. Teneva le mani strette a pugno, pronto ad intervenire. Se fosse 
caduta,  lui  l'avrebbe  salvata  dalle  acque  impetuose  del  fiume.  Ebe  ne 
era certa! E fu in virtù di tale certezza che gridò di gioia, quando sentì 
le braccia di lui, nerborute e decise, piombarle addosso e ghermirle i 
fianchi fino a farla scivolare nell'acqua.
Anche  quando  la  ripescò  per  rovesciarla  bruscamente  dietro  ad  un 
cespuglio di biancospino, lei si aggrappò saldamente alla certezza e fu 
felice, ma non completamente, perché sentiva che qualcosa d'inatteso, 
di non conosciuto, stava per succedere. Attecchì velocemente in lei un 
forte sospetto: Zoboli Quarto, registrato così all'anagrafe poiché ultimo 
di  quattro  figli,  ma  chiamato  da  tutti  Walter  e  soprannominato 
Cavalein 1 ,  per  via  del  temperamento  non  propriamente  domestico, 
quel  bel  giovane,  già  proprietario  di  tre  nomi,  stava  per  prenderle 
qualcosa  di  unico,  un  patrimonio  prezioso  che  nessuno  avrebbe  mai 
più potuto restituirle. Eventualità questa, che a lei che non possedeva 
nulla, ultima di tredici fratelli, appariva come una grande ingiustizia.
Ma fin da piccola, aveva imparato a stare al proprio posto, a rispettare 
la volontà degli uomini e Cavalein lo era, un uomo. Inoltre lo amava 
da sempre, o comunque da quando iniziavano i suoi ricordi. Così, non 
oppose resistenza quando lui si prese tutto di lei e strinse i denti Ebe, 
fino quasi a spaccarseli per evitare di piangere, quando vide che lui si 
rivestiva  in  fretta  e  furia,  facendole  giurare  solennemente  di  non 
parlare  con  nessuno  dell'accaduto,  nemmeno  con  quell'impiccione  di 
Emilio,  il  fratello  numero  dodici  che  le  stava  sempre  appiccicato  ai 
calcagni, come una piattola sanguisuga.
Ora  Walter,  detto  Cavalein,  risaliva  il  greto  del  fiume  a  gran  velocità, 
galoppando tra i boschetti di salice bianco con aria baldanzosa, quasi a 
sfidare  idealmente  le  correnti  avverse  del  destino.  Ebe  lo  seguiva 
mestamente, posando i piedini numero trentasei sui ciottoli bianchi e 
levigati dell'alveo, come se camminasse sui carboni ardenti. Con il capo 
chino e le spalle ricurve, cercava invano di allungare l'orlo del vestitino 
zuppo che, ora sì, le sembrava davvero molto corto.
Giunti in prossimità del Piop Negher 2 , il bosco di pioppi che da sempre 
ospitava i loro giochi di bambini, Walter si fermò e le fece un cenno con 
la  mano  aperta  e  il  dito  indice  a  sfiorare  le  labbra.  Ebe  sapeva  quel 
gesto, lui lo faceva spesso, significava: "Ferma e zitta!". Gli occhi verdi 
di lui irradiavano una luce sinistra e la sua bocca si piegò in un sorriso 
enigmatico e selvaggio. Ma Ebe riusciva a scovare, in quel viso a lei così 
famigliare, gli angoli segreti in cui si nascondeva il bambino che rideva 
insieme a lei nel pioppeto. Così, ancora una volta, si affidò alla certezza 
e  pensò  che  sicuramente,  Walter,  fosse  in  procinto  di  giurarle  amore 
eterno. Di lì a poco, le avrebbe recitato quelle frasi dolci e appassionate 
che  aveva  dimenticato  di  dirle  poco  prima,  dietro  al  cespuglio  di 
biancospino.  Lui  l'afferrò  per  un  braccio,  come  faceva  da  bambino 
quando giocavano a guardie e ladri e lui era una guardia e la catturava.
La  condusse  vicino  ad  un  pioppo,  apparentemente  gemello  a  tutti  gli 
altri.  Sul  tronco  rugoso  e  profondamente  fessurato  vi  era  una  piccola 
tacca  incisa  a  coltello.  Walter  si  mise  spalle  all'albero  e  cominciò  la 
conta...  :"Otto  passi  avanti,  tre  a  destra  e  poi  due  a  sinistra...  Bouna 
chè! Ci siamo!" E dopo essersi messo in ascolto, come in attesa di un 
funesto evento ed aver perlustrato il pioppeto fino al limitare del suo 
campo visivo, le porse una pietra affilata a forma di cuore e la invitò a 
scavare.  E  pensare  che  Ebe  credeva  l'avesse  raccolta  per  lei! 
Squarciarono  la  terra,  con  piccoli  colpi  aguzzi,  sotto,  giù,  fin  verso  le 
sue umide putrefazioni, mai un'intesa di sguardi, un incrocio di mani, 
solo respiri, in solidale sincronia di affanno. Poi... finalmente un sonoro 
“Ting!”,  un  rintocco  acuto,  rassicurante  come  quello  delle  campane 
della Santa Maria di Redù. Nei sogni da sveglia, loro si sposavano lì, in 
quella piccola chiesa di campagna senza pretese, si facevano promesse 
illuminate da una gioia diffusa, in un silenzio incantato e... "Ooohhh, 
dèsdet! Bela indurmintèda! 3  Tira!" La voce di Walter la svegliò come un 
pugno di sabbia ficcato negli occhi, e il suo sarcasmo le colpì l'orgoglio 
fino a farle aggrovigliare le budella dalla rabbia. Ma lo aiutò ugualmente 
ad  estrarre  dalle  morbide  viscere  della  terra  una  cassetta  di  metallo 
arrugginita.  Walter  ne  tirò  fuori  un  fagotto  di  stracci  che  poi  avvolse 
velocemente  nella  propria  camicia,  bianca,  come  l'ultimo  abbaglio  di 
sole che ora filtrava a coni dal tetto dei pioppi.
"Adesso  ricopriamo  la  cassetta,  svelta!"  ordinò  Walter.  "Prima  voglio 
sapere  cosa  c'è  dentro!"  gridò  Ebe,  con  un  tono  così  arrogante  e 
perentorio che la fece subito arrossire. "Zitta, non gridare!" sussurrò lui 
e la tirò a sé come a volerla baciare ma poi, assunse una posa statuaria 
e con fare solenne recitò: "Questa è | la condanna a morte | per quel 
cane vigliacco di un fascista | che è | l'Ascanio Boni". Declamò la frase, 
sottolineando ogni singola parola con un gesto di mano, come se stesse 
leggendo un epitaffio inciso su una lapide del cimitero della Pieve.
Ebe comprese all'istante di cosa si trattava, era timida mica stupida!  In 
paese  lo  sapevano  tutti,  i  partigiani  nascondevano  armi.  Avvertì  un 
frastuono cupo nel cervello come il battere d'ali degli stormi di rondine 
a settembre, lo lesse come un presagio di morte, ed ebbe paura. Walter 
le disse che nessuno avrebbe sospettato di lei e le consegnò il fagotto. 
Lei lo prese ma liberò lo sguardo e lasciò che volasse lontano verso un 
momento senza tempo, in uno spazio sospeso nel vento senza luci né 
ombre e tramutò gli stracci in oro, precisamente in un anello nunziale 
intarsiato  di  pietre,  brillanti,  come  rugiada  al  mattino,  era  l'offerta,  il 
pegno d'amore... "Ooohhh! Dèsdet, povra puteina inganèda dal cóc! 4
La ragazzina piombò nuovamente nel ‘qui e ora’, esaminò attentamente 
il  suo  innamorato  e  concluse  che  era  bello...  e  coraggioso  anche,  ma 
mancava completamente di garbo. Lui le disse di andare dritta a casa, di 
nascondere il fagotto per bene che lo avrebbe ripreso lui al momento 
giusto. Poi la baciò con quella potenza incantatrice che ti stacca i piedi 
dal sicuro della terra e ti vortica in aria, come piumino, in un soffio di 
fiato. "Ci vediamo presto!" disse Walter e se ne andò, portandosi via la 
certezza della parola ‘amore’ mai pronunciata. Con il pesante mastello 
a schiacciarle la testa, Ebe cercava una scusa credibile per giustificare il 
fatto  di  non  aver  risciacquato  i  panni  giù  al  fiume,  non  le  venne  in 
mente nulla di significativo e quindi concluse che ne avrebbe buscate 
tante quella sera, o dal padre, o da uno dei suoi fratelli, Emilio escluso 
ovviamente! Poi, pensò a quell'ultima frase pronunciata da Walter, quel 
"Ci vediamo presto!". Presto... quanto dura? Non è una parola precisa, 
perché  per  una  ragazzina  innamorata  presto  significa  tra  poco,  o  al 
massimo domani. Per un giovane partigiano invece, il tempo di presto 
dipende molto, da un lato, da quei vigliacchi di fascisti come l'Ascanio 
Boni, e, dall'altro, anche dalle faccende importanti da sbrigare insieme 
ai compagni comunisti della brigata Garibaldi a Modena.
Comunque  lui  tornò,  non  prestissimo,  ma  tornò,  dentro  ad  un 
pomeriggio  tiepido  di  fine  estate,  tornò  più  e  più  volte  sulle  acque 
imbizzarrite  del  fiume,  tra  le  canne  dei  giunchi,  dietro  ai  cespugli  di 
sambuco  e  di  biancospino,  tra  i  fusti  di  salice  bianco,  tornò...  fino  a 
quel  giorno  maledetto,  in  cui  la  brina  aveva  paralizzato  la  campagna 
con il suo gelido manto perlato. Era il 20 febbraio 1945, Walter arrivò 
sul finire della notte, entrò in casa di Ebe come un ospite, dalla porta 
principale che era sempre aperta, tanto non vi era nulla di prezioso da 
rubare,  solo  figli  e  miseria.  Si  diresse  silenzioso  e  sicuro  verso  il 
sottoscala in cui la ragazzina dormiva e la svegliò, senza un accenno di 
garbo,  premendole  una  mano  sulla  bocca  per  evitare  che  urlasse. 
Uscirono  strisciando,  silenziosi  e  leggeri  come  serpenti  argentati  sulle 
lisce  del  fiume.  Ebe  lo  sapeva,  non  era  venuto  per  lei,  voleva  solo  il 
fagotto  di  stracci  nella  camicia  bianca.  Glielo  consegnò  ma  doveva 
riferirgli  una  cosa,  un  fatto  importante  che  era  successo  giù  al  fiume, 
una  faccenda  seria  che  avrebbe  cambiato  per  sempre  le  loro  giovani 
vite. Lui la fissò in modo strano, con sguardo assente che non posava 
su di lei ma la scavalcava e correva lontano. Le diede un bacio distratto 
e  se  ne  andò,  avvolto  in  un  velo  di  nebbia  sospeso  a  mezz'aria,  una 
linea  orizzontale  di  zucchero  filato  che  spezzava  in  due  il  paesaggio, 
separava  la  terra  di  sotto  dal  mondo  di  sopra  e  tracciava  una  linea  di 
confine tra prima... e dopo.
Seppe che era stato arrestato quello stesso giorno. Lo lesse negli occhi 
gonfi e sgomenti di Emilio, prima ancora che gli dicesse che Walter era 
detenuto  nel  carcere  di  Modena  e  che  non  gli  facevano  incontrare 
nessuno,  nemmeno  la  Marianna,  sua  madre,  che  era  andata  a 
bestemmiare davanti alla casa del fascio con la cannella 5  in mano.
Lo rivide pochi giorni dopo, il 9 marzo, dall'alto del ponte di Navicello 
e  c'era  anche  quel  vigliacco  fascista  dell'Ascanio  Boni,  il  grasso 
comandante della brigata nera di Nonantola. Ebe si arpionò alla spalla 
del ponte incagliando le unghie nella gelida pietra e prendendo aria a 
piccoli  sorsi,  si  opponeva  con  forza  al  dolce  richiamo  del  vuoto  di 
sotto.
Ordinò al suo corpo di restare immobile a guardare l'Ascanio Boni che 
svolgeva,  molto  lentamente,  con  gesti  platealmente  studiati,  una 
camicia,  bianca,  come  il  bagliore  del  giorno  che  ora  rischiarava  il  suo 
presagio e lo concretizzava, fino a renderlo puro martirio. l'Ascanio ne 
estrasse  un  fagotto  di  stracci  da  cui  spuntò  una  pistola  che  brandì 
nell'aria e dalla cui lucente canna partì un colpo, secco, che ruppe la 
gelida  fissità  del  mattino  e  segnò  l'inizio  di  un  gioco  macabro  e 
violento.
Ebe invocò la certezza, ma sentì solo le sue mani staccare la presa dal 
muro del ponte, avvertì il suo corpo farsi leggero e vibrare senza peso. 
Con gli occhi non del tutto dischiusi vide Walter correre su e giù lungo 
l'argine, nudo e con mani e piedi legati da corde. I suoi sensi appannati 
afferrarono a stento dei latrati, liquefatti e strazianti come quelli che lei 
immaginava emettessero i lupi nelle fiabe.
Non guardò mai, perché sospesa a mezz'aria, tra le braccia fraterne di 
Emilio, il giovane padre di suo figlio venire letteralmente mangiato vivo 
dai cani.
Racconto liberamente ispirato a un fatto realmente accaduto.
In  ricordo  dei  miei  nonni  e  in  onore  di  Ivaldo  Garuti,  agricoltore 
partigiano.


1 ­ Cavallino
2 ­ pioppo nero
3 ­ Ooohhh, svegliati bella addormentata
4 ­ Ooohhh, svegliati povera bambina ingannata dal cucco
5 ­ mattarello


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