Lamberto Dolce
Uno scarto di vita
Essendo ancora capace di intendere e volere con questo mio testamento
olografo provo a spiegare, con poche ma concise parole perché la mia vita
adulta, iniziata ancora senza barba, sia andata così e cosa abbia portato a che
io pensassi di farla finire come meglio ho creduto, nella data di oggi.
Sentivo che qualcosa in me non andava da più di un anno: il bicchiere colmo
mi mandava in crisi, la fatica ad allacciarmi le scarpe, la difficoltà nel passare la
soglia di una qualsiasi porta. Anche mangiare mi risultava sempre più faticoso.
All’inizio erano brevi, improvvisi segnali che non potevo di sicuro battezzare
come postumi della sbronza serale. Tra i miei colleghi sono sempre stato il
più sobrio, le poche volte che bevevo avvertivo in anticipo il mio limite e mi
fermavo prima che la mia testa si frantumasse nel pantano sconnesso della
sbronza. A onor di verità non ho mai alzato il gomito per due motivi: il primo
perché ho un carattere sobrio e scarsamente mondano, anche a puttane ci
vado saltuariamente e solo con vere signore. Il secondo motivo riguarda il
lavoro che ho sempre svolto negli ultimi trent’anni. Come vola il tempo. Il
lavoro che faccio, sarebbe meglio dire facevo, è un lavoro che obbliga a stare
dritti. Un lavoro che ti tiene lontano da vincoli famigliari, adatto a certi
caratteri, schivi e poco loquaci come il mio. I miei colleghi me lo dicevano: è
proprio il tuo mestiere. E io sapevo di essere uno dei migliori, stimato dai
capi, invidiato dai colleghi. Ero da esempio per le nuove leve, spesso
manovalanza straniera, anche se ultimamente sono aumentati i giovani italiani
stanchi di farsi schiavizzare per 600 euro al mese. Nel mio ambiente ero
soprannominato “il prete”, anche per il fatto che con le carte, prima di quei
bastardi video poker, non mi sono mai indebitato. Cosa amavo del poker?
Non sono mai stato capace di bluffare. Forse ero attratto da quelle pause di
attesa verso la carta, quel silenzio sospeso in una tensione assoluta. Silenzio di
pochi attimi o di interminabili minuti.
Ero un professionista che aveva mercato, per anni sono stato infallibile.
Sempre centro al primo colpo. Guadagnavo bene ma non ho mai preteso il
massimo della parcella. Ho avuto naso nel gestire i rapporti con i miei capi,
più che nel rimorchiare, e questo a volte mi brucia. Comunque di soldi da
parte ne ho messi abbastanza anche se rifiutavo “gli arnesi” che mi voleva
rifilare la mia organizzazione. I ferri del mestiere costano ma ho sempre
preferito comprarli da me. I fornitori, da quando è crollato il muro, sono
aumentati come le guerre che li nutrono. Devo dire che più c’è guerra nel
mondo più c’è offerta e gli artigiani come me meglio comprano. Roba di
qualità, non quei ferrivecchi usati e poi gettati come rifiuti da un qualunque
mercenario in congedo.
Ho avuto un primo segnale quella volta: invece di stendere l’obiettivo, come
sempre, al primo colpo, ho dovuto poi spararne un secondo. E la mano, come
tremava. Tremava anche quando seppi del Parkinson dopo la visita
specialistica. Anche se sono ignorante so di che roba si tratta, come so che
non si torna più indietro; il mio precipizio è di una estenuante lentezza, non
ha lo schianto letale come avrei voluto. Per me, che sono tra i numeri uno nel
mio ambiente, il confine tra l’essere considerato indispensabile o un rifiuto è
talmente sottile che basta un niente. Ora quel niente mi ha spinto oltre, giù in
un ignoto precipizio. E la caduta, prima di franare del tutto, è troppo lenta e
per questo, oggi, spero per l’ultima volta, userò la mano sinistra. Avessi
saputo la fine che mi aspettava, non avrei risparmiato così tanto, ma li avrei
spesi tutti nei viaggi in aereo. Poche volte ho fatto quello che più desideravo:
prendevo un volo, così a caso, l’importante era stare attaccato all’oblò. Era
bello guardare il mondo da così in alto e tutto quello spazio senza geometrie,
senza confini. La vera libertà sta in cielo, tra nuvole e sole, dove il celeste si
allunga all’infinito sino in bocca al buio della notte, e dove volo sugli oceani o
sui deserti. E se fossi caduto, sarebbe stato il più bel tuffo di tutta la mia vita,
ben diverso da come frano ora senza controllo.
I miei risparmi sono custoditi in una cassetta di sicurezza alle poste principali
di questa città che mi ospita ancora per poco. A chi vanno? A nessuno: non ho
famiglia, amici, amante; non amo cani e gatti; nessuno mi ha mai amato, non
ho mai fatto beneficenza. Li lascio lì dove sono, sepolti come me, finché un
misero impiegato un giorno si chiederà: ma il proprietario di questa cassetta
starà via ancora per molto tempo? Così ho detto alle poste, di non
preoccuparsi se non mi vedranno anche per più di un anno.
Ho creduto di essere qualcuno, ma è durato poco. I sogni, nemmeno di notte
li ho mai visti. Sempre un sonno nero mi teneva sdraiato. Notti nere come
cieli senza stelle. Ed ora eccomi qui.
Non devo sbagliare colpo, la sinistra è più ferma, non può fallire. Non basta
che mi infili la canna in bocca, devo tenerla spostata leggermente verso
l’orecchio sinistro; così! Con la mia amata “Smith & Wesson 357” a tamburo.
Gli americani sono ancora maestri insuperabili nell’arte dell’uccidere. È certo
che basta un colpo per stendere l’obiettivo. Per sempre. Come ai vecchi
tempi, quando non ero un rifiuto. Aspetto il momento che la mia mano sia
ferma. L’ultimo istante della mia vita.