Barbara Cuoghi
Breve storia (a lieto fine) di Raffaella Maria Clelia
contessina di Ariafritta e Valdimeno

La Contessina Raffaella Maria era veramente un incanto. 
A vederla in giardino tra le ortensie la si sarebbe detta dipinta, tanta era 
la  grazia  che  le  movenze  della  sua  figura  snella  emanavano.  E  che 
ottima  educazione  aveva  ricevuto,  con  tutti  quei  precettori  che  le 
ronzavano attorno come bombi su un cespuglio di lavanda! 
Nonostante ciò, stava divenendo un serio cruccio per i suoi genitori e 
motivo di preoccupazione per tutta la famiglia. Alle poche proposte di 
fidanzamento giunte per procura la Contessina aveva opposto un netto, 
inoppugnabile  rifiuto  e  non  c’era  pretendente  che  si  azzardasse  a 
varcare  il  cancello  dell’enorme  tenuta  genitoriale  di  persona.  Questo 
perché  nessuna  delle  doti  di  Raffaella  Maria,  compresa  la  sfacciata 
ricchezza familiare, cancellava le bizzarrie del suo carattere ormai note 
in tutto il contado e anche oltre. 
Era infatti arcirisaputo che ella nutrisse un viscerale amore per le bestie 
tutte  e  per  la  costruzione  di  aggeggi  inutili  come  fionde,  gabbie  e 
trappole  che  confezionava  con  le  sue  mani  di  giovinetta  e  con 
pericoloso  ingegno.  Una  passione  sfrenata  che  la  portava  a 
comportamenti e imprese non certo degni di una gentildonna del suo 
lignaggio,  quanto  piuttosto  di  un  maschiaccio  povirazzo  o  di  uno 
smargiasso aspirante capopopolo. 
Come quella volta in cui era entrata nell’affosso limaccioso al confine 
con  la  terra  dei  Duchi  di  Campazzo  e  Melasecca  per  pescare  a  mani 
nude  certi  gamberoni  rossi  dai  quali  pensava  si  potesse  estrarre  il 
pigmento  carminio  con  un  siringone  di  sua  invenzione.  O  quando 
stanca  di  allevare  cavallette  nella  serra,  da  lei  stessa  appositamente 
costruita,  aveva  lasciato  che  esse  riconquistassero  la  naturale  libertà 
provocando la perdita del raccolto di mais e ortaggi di tutti i fittavoli. O 
quando si era messa in testa di poter gareggiare in velocità con i cavalli 
della  scuderia  paterna  dopo  averli  sottoposti  a  un  regime  alimentare 
ingrassante a base di melassa di barbabietola. O quando aveva tentato 
esperimenti  di  mesmerizzazione  sui  ratti  che  aveva  catturato 
nottetempo nella stessa cantina in cui quella Battista che le fu ava prese 
a schioppettate le lumache fuggitive.
Non staremo a dire qui cosa accadde quando Raffaella Maria convinse i 
figlioletti dei contadini che le api la riconoscevano come regina e che 
quindi  loro,  suoi  diretti  sottoposti,  avevano  il  permesso  di 
saccheggiarne l’alveare.
Se  non  fosse  stato  per  il  fido  Ottavio,  factotum,  consigliere  e 
balioasciutto, le mattane della Contessina si sarebbero susseguite senza 
soluzione di continuità. 
Di  una  decina  d’anni  maggiore  della  Contessina,  Ottavio,  più  che  da 
servitore  le  aveva  fatto  da  guida,  quasi  da  fratello  maggiore  e 
fortunatamente  almeno  lui,  lui  solo,  sapeva  come  prenderla.  Fin  da 
quando  l’aveva  conosciuta  piccina  aveva  cercato  in  tutti  i  modi  di 
incanalare  le  sue  curiosità  verso  un  orizzonte  meno  praticone  e 
ruspante  che  proprio  non  si  confaceva  al  suo  rango.  Tuttavia,  con  il 
passare  del  tempo,  Raffaella  Maria  si  era  fatta  sempre  più 
disgraziatamente intraprendente e autonoma.
Fu  così  che  al  compimento  del  sedicesimo  anno  della  Contessina,  il 
ventotto  ottobre,  dopo  le  regolamentari  ore  di  studio  con  l’istitutore 
Don  Franceschino  Pio  Ricciolomini,  il  fido  Ottavio  aveva  cominciato  a 
chiuderla  a  chiave  nella  sterminata  e  gelida  biblioteca  paterna, 
incurante  delle  urla  e  degli  strepiti  della  giovinetta.  A  volte  egli  si 
vedeva  addirittura  costretto  ad  usare  la  forza,  e  per  quanto  ella 
scalciasse e si ribellasse per la libertà negata, si era fatto certissimo che 
la pace dei volumi avrebbe placato le sue smanie di sapere. Non senza 
remore e patimenti aveva deciso di procedere in tal modo e lo faceva 
esclusivamente  per  il  bene  della  sua  Signorina,  cosa  che  gli  stava 
sommamente a cuore. 
Di converso, lei gli avrebbe cavato gli occhi.
Per  settimane  il  momento  della  reclusione  era  stato  seguito  da 
rovesciamenti  di  sedie,  sbattimenti  di  finestre,  suoni  gutturali,  ma 
anche  stridori,  mugolii  e  gracchiature.  Per  un  lungo  periodo  si 
percepirono  dall’interno  della  biblioteca  anche  dei  clangori  sinistri, 
colpi  e  colpetti  metallici,  interpretati  da  tutti  come  tentativi  di 
scassinamento e fuga mal riusciti e, in fine, abbandonati.
Solo lui, il fido Ottavio, con la scusa di recare alla Contessina qualche 
genere di conforto come un’acqua aromatica digestiva o un cioccolatto 
nei pomeriggi più frigidi, aveva il permesso di entrare per controllare 
che  ella  si  fosse  arresa  alla  lettura  e,  soprattutto,  che  all’emissione  di 
quei  suoni  non  corrispondesse  una  nuova,  perniciosa  macchinazione 
sperimentale. 
Nelle  sue  brevi  incursioni,  sotto  lo  sguardo  rancoroso  di  Raffaella 
Maria,  mai  aveva  scovato  niente  di  sospetto  nella  stanza,  solo  grandi 
fogli  pieni  zeppi  di  appunti  e  disegni  e  tomi  scientifici  e  trattati  di 
scienze  naturali  squadernati  ovunque,  sul  tavolo  e  sul  pavimento,  a 
conferma  del  fatto  che  la  Signorina,  non  potendo  dar  sfogo  al  suo 
intelletto con la pratica, si applicava con estremo profitto alla teoria.
Trascorsero così l’autunno e l’inverno.
A marzo l’indole selvatica della Contessina sembrava mitigata. Sebbene 
avesse  rifiutato  con  malagrazia  sette  proposte  di  matrimonio  in  sei 
mesi, Raffaella Maria appariva a tutti più misurata nel dire e nel fare, di 
quando  in  quando  addirittura  taciturna.  Non  faceva  più  imbarazzanti 
scene  isteriche  al  momento  di  sedersi  al  tavolo  di  studio  ma,  anzi, 
accedeva allo scalone che conduceva alla biblioteca con una certa luce 
negli  occhi  ed  un  compiacimento  trattenuto  che  traspariva  solo  dal 
sorriso appena accennato.
Non se ne avvide Ottavio, o forse non volle vederli, quella luce e quel 
sorrisetto. 
Di  certo  nulla  sospettarono  i  familiari  e  i  domestici,  tutti  sempre  così 
affaccendati in altre faccende che mai avevano dato peso nemmeno ai 
versi e ai tonfi che non di rado udivano provenire dalla biblioteca. 
Finché  la  mattina  dell’otto  aprile,  una  bella  giornata  di  cielo  terso  e 
sole  splendente,  la  Contessina  Raffaella  Maria  si  palesò  nuda  nata  e  a 
crine sciolto nel bel mezzo del giardino antistante la villa. 
Come  unico  vestimento  recava  a  tracolla  un  archibugio  artefatto, 
stranomorfo,  con  una  lamina  cribrosa  a  chiuderne  l’estremità  della 
canna allargata a tromba.
Nello  sbigottimento  della  servitù  che  si  raccoglieva  attorno  a  lei  a 
braccia penzoloni e a bocca aperta Raffaella Maria cominciò a miagolare 
forte  e  stonata,  come  solo  i  gatti  in  amore  sanno  fare,  chiamando  a 
raccolta  una  schiera  di  felini  rinselvatichiti  che  le  si  posizionarono 
davanti.
Subito  dopo  la  Contessina  si  sedette  gambe  flesse  e  natiche  a  terra  e 
alternò  un  ringhio  cupo  a  ululati:  immantinente  giunsero  da  ogni 
direzione i cani da guardia dei contadini, ma anche i tre da compagnia 
di Gabriella Maria, la sorella maggiore, e una frotta di spelacchiati cani 
randagi.  Presero  posto  ordinatamente  tra  Raffaella  Maria  e  i  gatti 
proprio  mentre  stavano  sopraggiungendo  il  Conte  Padre  e  l’augusta 
Contessa Madre la quale, alla vista dell’adunata animalesca attorno alla 
figlia ignuda e scarruffata, con un grido altissimo svenne sul selciato.
Nessuno  tra  gli  astanti,  in  vero,  se  ne  preoccupò,  tanto  erano  presi 
dallo  spettacolo  ipnotico  della  Contessina  che  chiamava  a  raccolta 
legioni  di  ricci  e  puzzole  e  scoiattoli  e  arvicole,  ma  anche  sciami  di 
vespe e formiche e coccinelle, pattuglie aeree di piccioni e cornacchie 
emettendo  i  più  strani  gorgheggi,  urletti  acuti  e  rumori  gutturali  con 
movenze di ballerina invasata.
Poi, ad un suo cenno, tutti, animali e uomini, tacquero.
“Voglio  rendere  qui,  oggi,  davanti  a  voi  la  mia  dichiarazione 
d’indipendenza.  
Io, Raffaella Maria Clelia Contessina di Ariafritta e Valdimeno, rinuncio 
a  oneri  e  onori  imposti  dall’appartenenza  al  mio  nobile  casato  per 
condurre  una  vita  dedita  alla  comprensione  atque  allo  studio  del 
mondo animalesco. 
Non  tentate  di  fermarmi,  Signor  Padre:  questo  è  il  mio  esercito  di 
puzzole, cani ringhiosi e vespe velenose – disse indicando con la mano 
tesa  tutte  le  bestie  in  schiera  –  e  questo  è  il  mio  schioppo.    L’ho 
caricato a bile di rospo e ne farò uso contro chiunque voglia fermarmi.”
Il Conte Eusebio Carlo Maria, al quale la figlia si rivolgeva con sguardo 
di  brace,  era  talmente  esterrefatto  da  essere  ben  lungi  dal  poter 
intervenire.  
Al contrario si fece avanti il fido Ottavio. 
Con  passo  lento  ma  sicuro  guadagnò  il  centro  del  giardino  facendosi 
largo  tra  le  animalesche  fila,  affiancò  Raffaella  Maria,  la  guardò 
intensamente  come  se  la  vedesse  per  la  prima  volta  ed  emise  un 
terribile ruggito leonino che mai era echeggiato prima in quei luoghi. 
Nessuno più osò proferir giudizio sul modo di vivere della Contessina e 
del suo Ottavio e ciò è prova tangibile che esistano molti tipi di armi sul 
globo terracqueo, ma che solo una è così potente da mutare un cuor di 
uomo in cuor di leone.


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