Luca Negrogno
Armi improprie

Ho  vissuto  un  periodo  infernale  ultimamente,  non  so  se  è  del  tutto 
finito ma oggi sono in grado di descrivere almeno la struttura generale 
di  ciò  che  è  accaduto;  con  il  tempo  spero  che  riuscirò  a  capire  bene 
come è andata, magari cogliendo anche meglio gli aspetti più grotteschi 
o banali. Quello che è successo è stato che, di punto in bianco e senza 
nessun  preavviso,  una  serie  di  cose  importanti  della  mia  vita  come  le 
relazioni amorose, gli impegni lavorativi, alcune amicizie, gli interessi e 
le passioni, ripeto proprio senza nessun motivo apparente, a un certo 
punto hanno fatto puf e si sono trasformate in armi. Da quando sono 
diventate  armi  hanno  iniziato  a  comportarsi  secondo  questa  nuova 
natura  e,  proprio  come  fanno  le  armi  quando  vengono  prodotte  in 
gran  numero,  hanno  iniziato  a  fare  danni  a  cose  e  persone 
indipendentemente  dall'eventuale  presenza  di  una  buona  causa  o  da 
chi  c'era  intorno;  così:  erano  armi  e  dovevano  far  male  senza  nessun 
particolare  motivo  o  se  c'era  un  motivo  si  vedeva  che  il  motivo  era 
venuto dopo, prima erano venute le armi; cioè: la maggior parte delle 
cose  che  mi  riguardavano  si  erano  trasformate  in  armi  e  il  resto  era 
diventato un inferno. 
Certo  mi  chiedo  se  non  sia  stato  io  a  trasformare  le  cose  in  armi  in 
qualche modo che non so, è una domanda martellante che mi fa venire 
in mente strani pensieri. Prima di tutto dovrei chiedermi se nella mia 
vita precedente c'era altro che poteva richiamare questa cosa delle armi 
improprie, delle cose che si trasformano in armi. Ricordo che quando 
da  bambino  mi  portavano  in  chiesa  ero  molto  colpito  da  quel  passo 
della  bibbia  secondo  cui,  giunti  alla  terra  promessa,  il  popolo  eletto 
avrebbe  potuto  tranquillamente  fondere  tutti  gli  arnesi  da  guerra  e 
farne dei gran aratri. La cosa mi aveva così colpito che, ricordo, avevo 
chiesto alla maestra di religione se non fosse possibile usare anche gli 
aratri  come  strumento  di  offesa  ma  la  maestra  liquidò  la  questione 
sostenendo che mi doveva bastare questo semplice concetto: esistono 
cose che sono armi e cose che non lo sono. Il fatto che il popolo eletto 
continuasse  a  chiamare  “Signore  degli  Eserciti”  questo  dio  dalle 
promesse  elettorali  così  pacifiste  continuava  però  ad  instillarmi  dei 
dubbi, non mi sarei di certo accontentato. 
Un  altro  momento  in  cui  la  questione  delle  armi  improprie  è  tornata 
d'attualità  nella  mia  vita  è  stato  quando  ho  parlato  con  qualcuno  che 
aveva lavorato in manicomio, che aveva seguito Franco Basaglia e che 
aveva  provato  a  costruire  le  prime  forme  di  assistenza  alternative 
all'ospedale psichiatrico. Mio padre, per esempio, mi raccontava che la 
cosa  più  complicata  fu  ridare  agli  internati  il  coltello  e  la  forchetta, 
invece di farli ingozzare a forza dagli infermieri. Certo, il rischio era che 
le “posate” (mai parola mi fu più chiara) fossero usate per fare violenza 
contro  di  loro;  mio  padre,  che  era  un  infermiere,  diceva  che  se  le 
persone le ascoltavi, se le accoglievi nonostante il delirio, poi di voglia 
di sbatterti una forchettata in un occhio non ce n'era più tanta, quindi 
le  cose  potevano  essere  gestite.  Ancora  oggi,  quando  mi  capita  di 
andare in un reparto psichiatrico di diagnosi e cura, anche in un posto 
non degradato come Modena, vedo che ci sono i tavolini fissati a terra 
con i fiches, “posati” un po' a forza, e penso che questo processo, del 
trasformarsi delle cose in armi, forse non fa paura solo a me, forse non 
è un problema solo per me, ma deve essere un problema collettivo, e 
in qualche modo le istituzioni devono essersi organizzate per tentare di 
porvi un rimedio.  
A  proposito  del  collettivo,  in  questi  giorni  che  mi  faccio  questi  strani 
pensieri,  arrivo  anche  a  pensare  che  il  problema  delle  cose  che  si 
trasformano in armi può assumere delle dimensioni storico­sociali. Per 
esempio, confrontando quello che deve essere successo negli anni '70 
con  quello  che  succede  oggi,  ho  dovuto  ipotizzare  che  a  un  certo 
punto  della  storia  anche  il  collettivo  deve  essersi  trasformato  in 
un'arma,  e  anche  la  voglia  di  cambiare  e  migliorare  la  propria 
condizione,  da  essere  una  cosa  normale  che  accomunava  un  sacco  di 
gente  sfigata,  è  diventata  un'arma  che  le  persone  hanno  iniziato  ad 
usare le une contro le altre, e a volte anche contro se stesse; e anche il 
collettivo,  che  sembrava  lo  strumento  per  mettere  in  discussione  la 
realtà com'era e farne una diversa, deve essersi trasformato in qualcosa 
che  opprimeva:  quello  che  garantiva  la  sicurezza,  l'appartenenza,  la 
comunanza,  diviene  improvvisamente  una  condanna;  la  libertà,  che 
sembrava una cosa che si poteva costruire insieme, diventa invece uno 
sciogliersi,  un  diritto  all'assenza,  un  taglio  netto  a  qualcosa  che  può 
tenerti legato a qualcun altro. Una cosa che sembrava uno strumento di 
emancipazione fa puf e diventa una cosa che fa male, uno strumento di 
amputazione e impoverimento: un'arma, che fa male a caso, a se stessi 
e agli altri, solo perché era lì. 
Poi,  pensandoci,  so  che  esistono  dei  reparti  psichiatrici  di  diagnosi  e 
cura in cui le cose non sono affatto fissate al pavimento, in cui non si 
tende a pensare che uno, solo perché entra lì, ha voglia di usare come 
arma  tutto  ciò  che  gli  capita  a  tiro.  Sono  pochi,  circa  una  dozzina  in 
Italia,  che  hanno  pure  le  porte  aperte  e  non  usano  mai  legare  le 
persone  ai  letti.  Interessandomi  di  questa  cosa,  pensavo  che  se  in  un 
contesto le relazioni sono aperte, se ci si dice quello che non va e non 
ci  sono  autoritarismi  assurdi  e  disattenti,  le  persone  anche  più 
aggressive tendono a scegliere il dialogo per esprimersi, perché viene 
ascoltato e quindi è efficace, piuttosto che rovesciare i tavolini in testa 
agli altri. Mi sono dunque chiesto se questa cosa che nella mia vita a un 
tratto tutto si è trasformato in armi fosse perché io non concedevo a me 
stesso  di  ragionare  apertamente  sulle  cose,  prendendomi  sul  serio, 
portando fino alle conseguenze reali quello che mi veniva da pensare. 
Forse questa è la strada che continuerò a battere per capire questa cosa 
infernale in cui sono finito, ma oggi, che questo inferno mi appare in 
questo modo così metaforico e generale, mi sembra di poter raccontare 
anche qualcosa di più, che dal buco di questo inferno è uscito. 
Essendomi  trovato  anche  io,  come  mio  padre,  a  lavorare  con  delle 
persone  che  hanno  avuto  la  ventura  di  essere  pazienti  psichiatrici,  o 
che  comunque  avevano  delle  sfighe  e  dei  casini,  penso  che  questo 
fenomeno  del  trasformarsi  delle  cose  in  armi  l'ho  sempre  visto, 
conosciuto  e  ammirato.  Con  le  persone  con  cui  lavoro  mi  è  capitato 
tante  volte  di  vedere  come  alcuni  comportamenti,  disposizioni  o 
atteggiamenti,  di  quelli  che  fanno  più  interessante  e  viva  una 
personalità,  possono  a  un  certo  punto  fare  puf  e  diventare  dannosi  e 
distruttivi,  qualcosa  a  cui  qualcun  altro  poi  attacca  un'etichetta  di 
depresso, schizofrenico o borderline. Una certa sensibilità per ciò che 
non è immediatamente presente, una certa capacità di cogliere aspetti 
inaspettati,  una  certa  gioiosa  instabilità  nelle  relazioni;  non  ci  vuole 
niente  e  fanno  puf,  e  giù  con  un  sacco  di  aiuti,  che  anche  loro 
diventano  armi;  incredibile.  In  quelli  che  altri  intorno  a  me  spesso 
vedono come sintomi, mi sono sempre abituato a vedere cose vive che 
non  sanno  come  venire  fuori  perché  a  un  certo  punto  si  sono 
trasformate  in  armi,  e  gli  altri  intorno,  invece  di  disarmarle,  le  hanno 
prese  come  armi  vere  e  proprie  e  hanno  preso  anche  loro  delle  altre 
armi  per  difendersene,  provocando  dall'altra  parte  un  armamentario 
ancora maggiore, e così via. 
Anche per quello che mi riguarda, vedo chiaramente che le cose che si 
trasformano  in  armi  sono  le  cose  che  di  solito  invece  curano, 
accrescono,  rimettono  le  cose  insieme.  Capita  alle  cose  di  punto  in 
bianco:  anche  questo  foglio  che  ho  scritto  potrebbe  trasformarsi  in 
un’arma,  se  non  avessi  scovato  almeno,  oggi,  questo  principio  di 
salvezza: che le cose non è che sono armi o non lo sono; piuttosto, le 
cose certe volte lo sono e certe volte non lo sono e se io sono fatto così 
o  in  un  altro  modo,  in  nessun  caso  questa  è  una  condanna  e  questa 
consapevolezza  non  può  diventare  un'arma  anche  lei.  In  pratica,  se  a 
uno capita di farsi un giro all'inferno, e ha abbastanza presenza d'animo 
per  guardarsi  intorno  e  chiacchierare,  sono  sicuro  che  scoprirà  una 
cosa  abbastanza  significativa:  nessuno  è  finito  all'inferno  per  una 
condanna. Non c'è nulla, di come uno è fatto o di cosa uno fa, che è 
una  condanna  all'inferno:  semplicemente  le  cose  fanno  puf,  sono 
improprie quando non hanno più voglia di essere proprie, e tutto può 
trasformarsi in armi, e tutto può essere improprio. 


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