Luciana Grassi
Le storie d'amore finiscono

Il treno non mi parla più.
Un giorno che non ricordo è diventato indifferente all’amore che fin da
bambina gli avevo rivelato. La prima volta l'ho preso di notte, con mia madre,
dovevo avere 3 o 4 anni, non ricordo dove stessimo andando. Sovreccitata e
inarrestabile, lo scompartimento era tutto per noi due e per la suora che ha
ascoltato tutta la notte i miei racconti, i miei disegni, i miei giochi. Non
ricordo come ci fossi salita o scesa, ma il treno era il mio posto, mi proteggeva
con le sue mura di ferro e mi portava altrove. Altrove dove ho sempre voluto
vivere.
Sono cominciati i viaggi e niente era come lui. Ci salivo, prendevo il mio
posto accanto al finestrino e mi facevo portare altrove. Mentre lui mi riempiva
di pensieri e storie, gli occhi a divorare paesaggi veloci. Quando incorniciava il
mare quel grigio, quel blu mi penetravano e rimanevo sospesa. M'incantava
con i fili delle stazioni che si incrociavano e ingarbugliavano e dividevano e
correvano sulla mia testa, assaggi di città alle fermate, odori di vite possibili. A
volte mi regalava un compagno di viaggio, un'intesa perfetta che durava
qualche ora e un addio soddisfatto alla fine. Il regalo più bello era il tempo,
avevo cominciato a capirne l'importanza quando lo avevo perso, poi me lo
avevano rubato per farne stupidi doveri, ricatti morali, sensi di colpa e lui lo
aveva capito, mi mancava tutto il tempo, e me lo regalava, un po' ogni volta
che poteva, tempo solo per me mentre andavamo altrove.
Devo averlo offeso. Il treno non mi parla più. Non ha più suoni, odori e
rumori, ora ha il rumore delle tue cuffie, è volti che muovono bocche mute,
micromondi mobili con la tua colonna sonora, paesaggi chiusi in gallerie
senza fine.
Devo averlo fatto arrabbiare. Il treno che fa paura corre, tu chiuso in una lattina gigante con la gente, la gente che potrebbe impazzire ci dicono. I treni
che uccidono, i treni che muoiono.
Eppure. Una volta. In un anno. Quella mattina, la luce è quella giusta, la
musica l'hai scelta bene, ti vedo arrivare, non sei quello che aspettavo ma sei
quello che conosco bene, mi inviti a salire quando dalla porta che si apre
l'odore di metallo e disinfettante industriale si mischia a quello di caffè e
cornetto, mi prometti avventure e sogni, andiamo altrove, mi dici. Mi pungi
gli occhi con il riflesso del tuo finestrino.
Non posso.
E forse, tristemente, si è solo disamorato. Ora che consola stanchezze,
più spesso è un ufficio mobile. Non immaginiamo più le nostre vite,
indifferenti a viaggiatori nuovi e sognatori viaggiamo separati ogni giorno.


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