Giuliana Fornaciari
Ade padano

In genere va tutto sempre male, nel senso che le cose accadono in un
modo vertiginosamente distante da qualsiasi immaginazione. E in ogni
caso di fronte alla morte si arriva sempre nudi, spettinati e inebetiti.
Quella volta lì, mi colse uno sbigottimento, con le braccia lungo i
fianchi da idiota primordiale con la bocca aperta. Mi domandavo come
fosse possibile che qualcuno riuscisse sinceramente a consolarsi all'idea
che esistesse un Aldilà.
Mi si avvicinavano benevoli, dicendo delle frasi di rito tipo: "Adesso
Thomas ha trovato pace e sta meglio, lassù nell'Alto dei Cieli", ma io
provavo Orrore all'idea che fosse, che ancora egli fosse, che ancora
stesse, che ancora Thomas esistesse in una qualsiasi disperata forma, in
un insensato Ade. Ed era lì il problema, tutto lì. Come fate voialtri a
concepire che questo fantomatico Aldilà possa essere meglio
dell'Aldiquà. Ma come fate?
Nel lutto non ero in grado di escludere nessuna ipotesi, non avevo
sentore né dell'esistenza, né dell'inesistenza di una seconda vita. Ma
quello che mi era cristallino, e comprensibile e nitido anche in un
momento di pazzia come è il lutto, era che non esiste uno straccio di
garanzia che 'sto Aldilà possa essere migliore del mondo dei vivi. Lo
Spavento Eterno di sapere Thomas ancora cosciente, ancora
tormentato – ma in una dimensione nuova e merdosa come un Limbo
dove nulla poteva essergli famigliare – mi faceva inginocchiare a terra a
mani giunte:"Dio dei Cani, Dio dei Maiali, Grande Dio Ctonio della
Merda Ctonia, fa che Thomas non sia più, non pensi, non esista, non
abbia alcuna coscienza, fa che egli non sia, non sia più nulla".
Temevo avesse freddo alle ossa nella tomba, temevo avesse freddo in
tutto il corpo a vagare come un fantasma.
Io temevo, e fortemente temevo, che oltre alla fatica psicologica di
esistere – e per giunta esistere ancora, nel peggiore dei modi – temevo
gli toccasse pure di soffrire la pena corporale del freddo. E lo pensavo
solo per le campagne della Padania, triste e insensata come una
cattedrale di poliuretano, triste e insensata come un precipizio di
formica. Pensiero che non reggevo per più di una frazione di secondo,
e che scacciavo con un qualche altro incubo più tollerabile, non
ricordo più quale. Ricevetti una infinità di colpi di baionetta, qui nel
costato, inferti da tutti gli imbecilli che vagheggiavano questa cosa
consolatoria del Riposo Eterno, della pacificazione, del Paradiso.
Sorridevo gentile, e li rassicuravo a mia volta con una frase di
circostanza, li rassicuravo simulando di aver gradito la loro sensibilità,
la loro premura, ma volevo che sparissero velocemente. Gli imbecilli
con cui si interagisce nei momenti di fragilità aggiungono al dolore il
peso del grottesco, aumentano esponenzialmente l'Orrore.
Può essere forse che in quei giorni lugubri di corteccia cerebrale
esposta alla guazza, afferrai un paio di altre verità apicali, con lo stesso
sferzante nitore, ma non ricordo più nulla, nulla di nulla di nulla. Non
mi ritorna in mente nulla, di tutto quel delirare, e per fortuna non
ritorna. E' tutta roba che non rimane in mente, che non si può più
evocare, è un male troppo alto per essere trattenuto. Mi ricordo solo
l’Orrore e lo Spavento del dubbio, dell'Ade Padano. E mi ricordo che
non ricevetti neppure la grazia del participio passato del verbo
soccombere. Non esiste e non lo si può coniare.
Io soccombo, tu soccombi, egli soccombe. Ed è grave che non si possa
dire "egli è soccombuto". E' grave perché non dovrebbero mancare le
parole per descrivere quella cosa lì, del soccombere. Il dopo del
soccombere. Il momento successivo al soccombere, quando si giace
inerti, e tutto è finito.