Rin Don Dante
Essere o non essere

L'estate ha, per me, da sempre, la forma e i colori di un luogo. Un
luogo reale, a pochi chilometri da Modena in cui ho trascorso buona
parte delle vacanze estive da quando sono nata; ne ha anche l'odore, di
mentuccia selvatica, che cresce intorno a casa, tra l'erba su cui mi sono
seduta migliaia di volte.
Da bambina, insieme ai miei cugini, stavo lì a sentire le storie, perlopiù
terrorizzanti, che ci raccontavano: storie di fantasmi e di avi, di Celso
senza una gamba, di streghe nel pozzo e di diavoli che di notte tirano i
piedi ai bambini paurosi.
Qualche estate dopo, su quello stesso prato profumato, mi univo ai
grandi, la sera, per cantare De André e Guccini. Lì è nato il mio amore
per i cantautori.
Da ragazza, in quegli stessi luoghi, attraversavo le estati cavalcando i
sogni di onnipotenza dei vent’anni, con la
motocicletta10hptuttacromata, di Marco, mio fidanzato storico; erano
gli anni 80, quell’estate alcuni balordi si erano divertiti a scoperchiare
le tombe del cimitero di Granarolo, luogo semi abbandonato in cui
erano ambientate molte delle storie di paura di mio zio. Un pomeriggio
parlai a Marco del fatto delle tombe. Non so se fu la curiosità macabra,
la voglia di stupire o l’interesse alimentato dagli studi in medicina a
fargli considerare che una visita al luogo fosse cosa irrinunciabile.
In pochi minuti mi ritrovai a spingere il cancello arrugginito del
cimitero, che s'aprì con un cigolio sinistro. Con la testa piena delle
suggestioni infantili mi avvicinai alle prime tombe aperte, camminando
davanti a Marco e simulando una sicurezza che ero ben lontana dal
provare. Le fosse erano piene di terra e frammenti di legno.
Ne fummo delusi.
Continuammo ad aggirarci tra vecchie lapidi e ortiche e arrivammo
all’ultima tomba, vicino alla chiesina cimiteriale. La pietra del coperchio
era spostata e, all’interno, una bara spaccata mostrava uno scheletro
praticamente completo. “Chi ha il coraggio di andare nel cimitero di
Granarolo e guardare in una tomba?
” diceva l’eco di una voce nella
mia testa; “Chi ne ha il coraggio?”, “Sei o non sei coraggiosa?”.
Non so come ma la mia mano si infilò nel pertugio e ne uscì portandosi
dietro il teschio.
Di quel che successe dopo ho solo vaghi ricordi: il viaggio di ritorno col
trofeo sottobraccio, la pentola della pappa del cane in cui bollimmo il
cranio, i dubbi amletici sull'essere o non essere coraggiosi.
Nessuna notizia mi perviene sulla profanazione di luogo sacro o
appropriazione indebita di resti umani.
Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
A distanza di trent’anni una cosa l'ho capita: alcune esperienze servono
a “farsi le ossa” e, in qualche modo, contribuiscono a scrivere la nostra
storia.


precedente
successivo