La Manx
Il mio canto fresco
Ho un ricordo vago di quella volta che mia madre mi trovò razzolante nel
bidone della spazzatura in cucina. Una treenne che si tuffa di testa in un sacco
nero trasudante e umidiccio. Respiravo? Cercavo.
Più chiaro è il ricordo di poco successivo, di un atto inquinante e pubblico di
cui mi resi protagonista. Mostravo alla bambina del piano di sotto, la figlia del
padrone di casa, che ero capace di cacare in cortile. Peccato che sul più bello,
ma non prima di avere sganciato l’escremento sulla palladiana, mio padre
fosse apparso sulla scena come l’orco, a censurare il gesto plateale, e sociale
direi, e a cacciarmi con onta su per le scale.
Ci fu poi la volta in cui, scolara elementare, attratta dall’ammasso di carte e
giornali che le Giovanni XXIII raccoglievano con avveniristica lungimiranza
nella sala del teatro, nello sfogliare riviste patinate dai colori vivaci, mi si
squadernò davanti la prima, inedita immagine pornografica. Così inedita da
non capirla, ma abbastanza esplicita da subodorarne la sconvenienza. La
Saide, la bidella spaziosa e grande come un armadio, si accorse subito
dell’incidente e, come una nonna materna, mi sottrasse repentinamente il
proibito di sotto gli occhi.
Un’altra volta, non tanto tempo dopo, mi misi in testa di entrare in un
cassonetto. Volevo salirci sopra per saltarci dentro. C’erano ancora quei
cassonetti color verdino fango, io li ricordo così, quelli in cui si gettava di
tutto, senza tante storie: bambole decapitate, resti della tavola, musicassette
sbudellate, gattini vivi o morti, sottovesti, latte di acquaragia. Qualsiasi cosa.
Quel giorno mi aveva morso la tarantola. Chiesi a Daniele di intrecciare una
scaletta con le sue manone di bambino solido. In un momento c’ero sopra,
svettante, sul bidone, a pensarci bene non lo chiamavamo ancora cassonetto.
Il portello era spalancato, ci guardavo dentro tenendo le braccia tese come ali,
pronta al lancio. Stavo per gettarmi in picchiata in quella mescolanza avariata
e maleodorante di generi, quando, la signora Maria del condominio di fronte
emise un grugnito incomprensibile al mio indirizzo. Sapevo che odiava i
bambini la signora Maria, ma lei non sapeva che i bambini la ricambiavano. La
guardai con pupille selvagge e scimmiottai il suo grugnito potenziandolo
d’infiniti decibel. E quello fu l’errore. Perché mia madre aveva buone orecchie
e subito, come una guardia svizzera, si affacciò al balcone ordinandomi di
filare a casa se non volevo prenderle di santa ragione. Quello che mandava in
bestia mia madre non aveva niente a che fare con l’impresa in sé, fallita ahimè
miseramente. Era l’uso smodato e molesto della voce per strada, solo quello,
a farla uscire dai gangheri. Per quell’urlo selvaggio restai in punizione per
tutto il resto di quella bollente giornata d’estate.
L’ultimo episodio che ricordo risale a quando ero già una ragazza. Una notte,
in compagnia di amici sconsiderati ma carini parecchio, qualcuno lanciò una
sfida. Era una cosa fra maschi e noi femmine eravamo solo scontate spettatrici.
Divelsero uno di quei gettacarte in polietilene verde, bocca ad asola, che si
trovano ancora a qualche angolo di strada per gli scarti solitari del passeggio
urbano. Lo svuotarono del suo contenuto e ne innaffiarono l’interno con
fondi di birra sgasata aggiungendo cenere di sigaretta e mozziconi a
galleggiarci. Ingoiare quella ciofeca per cinquanta sacchi, in questo consisteva
la prova. Io non mi curavo del rito d’iniziazione liquida che si stava
compiendo fra le risa sguaiate della banda, vegliavo invece quei cadaverini
solidi, brutalmente scaraventati sull’asfalto, privati del loro loculo di plastica
verde. Se ne stavano ammucchiati in un modesto cumulo in cui potevo
distinguere un cerotto macchiato appena, un fazzoletto di stoffa a righine
grigie, una bottiglietta vuota di fruttino alla pera, carte varie appallottolate e
una massa scura, che poteva somigliare a un uccellino stecchito, ma non ne
sono mai stata sicura. Quella volta, tanto gli altri non potevano sentirmi,
intonai un canto fresco, in onore di quel piccolo cumulo immondo e
profanato, e fu bello.
Da allora non ho più smesso. Nelle notti più dolci, scendo per strada e
cammino fin dove mi va. Spiego la mia seggiolina da campeggio e mi siedo
vicino ai cassonetti. Sono vari, in fila, assegnatari di compiti precisi. Mi ci
siedo proprio accanto. A fare cosa? Niente di speciale: canto. Quell’urlo
selvaggio dell’infanzia ha sgualcito per sempre la mia voce ma io, lo stesso,
canto le note più fresche che trovo. Canto per le immondezze, ed è bello,
musiche da film, che sono le mie preferite, senza parole da ricordare.