Cecilia Valenti
Disarmata

Entro in casa dopo il lavoro, stanca, passo appena la soglia d’ingresso e 
mi  trascino  la  porta  che  pare  un  macigno.  L’aria  del  pianerottolo  mi 
accarezza  ancora  il  fianco  e  con  un  gesto  deciso  lancio  via  la  prima 
scarpa di quella pesante armatura che mi tocca indossare tutti i giorni. 
La  scarpa  atterra,  fa  una  giravolta  su  se  stessa  e  il  tacco  a  stiletto  con 
fare  minaccioso  finisce  col  puntarmi  contro.  Proprio  quello  che  era 
sotto ai miei piedi e ora con tanta tracotanza pare averlo dimenticato... 
E via la seconda, questa volta atterra più vicino e volge il tacco al muro, 
ha capito che non deve sfidarmi! 
La  borsa  del  lavoro  è  già  in  esilio,  la  porta  si  chiude  e  con  le  ultime 
forze continuo a spogliarmi del resto: mi strappo un pensiero, mi tolgo 
un dubbio, accantono una speranza, allontano un pianto; tutta roba di 
altri e adesso non so più cosa farmene. 
Il  passo  diventa  leggero  e  vado  verso  la  stanza  da  letto,  ora  tocca  ai 
calzoni  che  cadono  a  terra.  Il  braccio  destro  è  già  per  i  fatti  suoi, 
intanto il sinistro accompagna la mano che è impegnata a snocciolare i 
bottoni della camicia, ma io non resisto e appena c’è un varco gli ficco 
la  testa  e  via  che  sfilo  l’indumento  dall’alto  e  lo  getto  in  aria.  In 
reggiseno  e  mutande  raggiungo  il  bagno,  mi  siedo  sul  water  e  faccio 
una lunga pipì. È già catarsi. 
Mi guardo allo specchio fintantoché lavo le mani, via anche il trucco e 
voilà  tocca  al  reggiseno!  Mi  chino  per  sfilare  il  resto  quando  il 
terrificante  trillo  che  imita  una  sveglia,  insiste.  Allora  mi  lancio  alla 
ricerca  del  suono  con  le  mammelle  al  vento  e  le  mutande  avvolte  ai 
polpacci.  Lo  trovo  e  scopro  che  era  un  avviso  importante.  Ultimo 
giorno  per  collegarmi  a  un  portale  e  sostenere  un  test:  si  tratta  della 
mia partecipazione a una ricerca clinica, ma devo dimostrare in poche 
risposte di averne le competenze.
La  mente  si  sposta  di  nuovo.  In  fondo  il  momento  è  perfetto,  sono 
ancora sola e ci vogliono giusto quindici minuti. 
Apro il computer e lancio il test, devo concentrarmi perché il tentativo 
è  unico  e  allo  scadere  del  tempo  le  mie  non  risposte  saranno  lette 
come sbagliate.
Eccomi  lì,  sola,  nuda,  immobilizzata  in  un  bondage  di  mutande  tra  i 
polpacci, in piedi appena chinata in avanti con gli occhi tra le tempie 
scoppiettanti  e  incollati  allo  schermo  del  computer  appoggiato  su  un 
tavolo  che  fa  bella  mostra  davanti  a  un’enorme  finestra.  Io,  così 
concentrata da non ricordare in che stato mi trovo, non finisco la prima 
domanda che avverto aprirsi la porta d’ingresso e un coro di due voci 
bianche saluta: “Ciao mamma!”.
Non posso sollevare lo sguardo, ma accenno a un sorriso tirato mentre 
alzo  la  mano  libera  di  cui  mostro  il  palmo  e  tutte  le  cinque  dita  ben 
distese, poi nell’insieme le muovo lanciandole in avanti come una palla 
di cannone. Le mie figlie tacciono e sconsolate si allontanano, ma poi è 
la volta di mio marito. Anche lui rincasa, mi saluta e non trattiene un 
“che fai?” tra disapprovazione e arrendevolezza. Allora il braccio ancora 
alzato  si  tende  come  una  katana  issata  contro  il  nemico  e  lui  volta  i 
tacchi  e  se  ne  va  bofonchiando  qualcosa  d’incomprensibile.  Nel 
frattempo  i  minuti  scivolano  via,  il  test  è  finito  e  il  punteggio  esce  in 
automatico: 100 punti su 100! Evviva! Quindi, alzo anche l’altro braccio 
in segno di vittoria.
Fuori c’è buio, le luci della stanza sono tutte accese e solo a quel punto 
ricordo  che  dall’altra  parte  della  finestra  a  cui  do  le  spalle,  la  casa 
antistante non è più disabitata. D’istinto mi giro, guardo attraverso due 
finestre e il mio nuovo vicino accenna a un saluto imbarazzato. Le mie 
braccia ancora in alto diventano mollicce, gli occhi si dilatano, la bocca 
si spalanca e le mutande cadono del tutto: sono disarmata, mi arrendo!


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