Stefania Bonacini
IL MIO

Ecco, fatto! Una pulizia totale, accurata e precisa.

Dopo di che vengo inserita, come fossi un qualunque carrello del
supermercato in un’anonima saletta, fredda, spoglia. Si respira
un’atmosfera surreale, marmorea... e così anche se sono atea, da oggi,
credo fermamente nel purgatorio.

Di fianco a me c’è una donna, giovane, dal volto estatico. É felice... lo
sento, lo vedo anche se cerco di non guardarla. Mi parla e il tono della
sua voce è un misto di stanchezza ed eccitazione. Non capisco
immediatamente cosa voglia da me ma poi, all’improvviso, afferro al
volo il senso di una frase che mi colpisce allo stomaco come quelle fitte
lancinanti provocate da un virus gastrointestinale: “Il tuo, come si
chiama?”.

Il mio... non ha un nome, non ha un sesso e, se è per questo, non ha
nemmeno un cranio.

Vorrei risponderle ma le parole mi restano incastrate tra i denti come
quelle fastidiose pellicine di mela che poi devi togliere con il filo
interdentale. Ho la gola secca, il labbro superiore si è incollato a quello
inferiore e come se non bastasse, di colpo, la vista si appanna e succede
come quando apro gli occhi sott’acqua e tutti i contorni sono imprecisi
e confusi. Anche la voce della donna adesso mi giunge lontana, irreale
come ovattata.

Ho freddo, è da tanto tempo che ho freddo. Lo sento nelle ossa, nelle
reni, dentro alle dita dei piedi... le mie suppliche fendono l’aria ad
intermittenza, rauche e sgraziate come un raschio di gola.

Qualcuno mi sente e mosso a pietà, mi lancia una cosa polverosa e
rigida che definisce con il nome di pannetto. Il sedicente pannetto che
pizzica e gratta la pelle non serve a scaldarmi lo scheletro, non può
riparare lo strappo, lo sradicamento, lo sgambetto finale.

Come può una parola corta, innocua come TUO, insinuarsi tra le
pieghe dell’anima, bruciare dentro fino a ghiacciare le membra e
renderle dure e fragili come cristallo?

Verso lacrime... a pioggia, a fiume, a torrente, compressa in un ritegno
faticoso e forzato fino a sentire il bagnato del cuscino con la punta
delle orecchie.

Ripercorro con la mente i punti salienti di questa giornata... forse non
sono presente a me stessa, magari ho avuto un incidente e mi trovo in
coma in un letto di ospedale in preda al delirio.

Cerco un punto d’inizio, un centro reale, un senso qualunque da dare
a questo tempo che è adesso ...

Dunque... è Venerdì 17 dicembre 2003 (strana data per una come me
che non crede nelle superstizioni), ho quasi raggiunto la sala
operatoria del sesto piano, ho freddo, tremo, percorro il lungo
corridoio sulle mie gambe, il passo incerto che mi accompagna è mosso
da una forza oscura, indipendente da me. Mi scorta un’infermiera
bionda di mezza età dalla corporatura robusta e dai modi scorbutici.
Chiedo di fare pipì e quando cerco di uscire dal bagno trovo lei, la mia
corpulenta guardia del corpo ad ostruirmi il passaggio.
Le sbatto contro, la spingo in avanti con tutta la poca forza che mi
resta, premo i miei palmi tremanti contro le sue grosse tette. Lei, si
sposta solo di mezzo centimetro e mi fissa attraverso i suoi piccoli
malevoli occhietti infossati.

Le chiedo perché mi stia così addosso e lei, incrociando le braccia a
protezione dei suoi enormi seni, risponde: ”Controllo... sa, non vorrei
che cambiasse idea all’ultimo e se ne andasse”.

Fingo di dare un senso a quelle parole... fuggire... io? E dove poi?
Andarmene con tutto il pesante fardello di acqua, ossa incomplete,
carne e terrore? Che idea balzana, penso mentre mi corico docile ed
obbediente sulla fredda lastra di ghiaccio chiamata barella.

In un attimo mi ritrovo in sala operatoria dove due giovani chirurghi si
stanno già litigando l’esecuzione.

Uno dei due ha la meglio e mi chiede di poggiare le gambe sul
divaricatore.

Sento una specie di aspirapolvere strisciarmi tra le cosce ed entrare nel
mio utero con la stessa assenza di grazia con la quale io infilo il tubo
del folletto aspiratutto nei pertugi sozzi dell’armadio.

Uno dei medici si complimenta con me per la robustezza del mio
apparato pelvico e mi domanda che tipo di sport io pratichi...cazzo!
Perché ho scelto l’anestesia locale?

Volevo tornare il prima possibile a casa e fino a poche ore fa mi
sembrava un’idea ragionevole... ora me ne pento amaramente, sono
troppo cosciente, del tutto presente all’orrore, lucida complice di un
omicidio premeditato.

Sento male, un dolore sordo, continuo, che risucchia la vita, un raschio
maligno che irradia dal basso e sale nella testa fino a tornare nella
punta dei piedi passando dal cuore, un moto perpetuo e inarrestabile.

Ad un certo punto mi arrendo, subisco lo strappo, lo slaccio brutale,
lascio che venga scavato il solco profondo, tracciata la linea di confine
che separa il me, da te.

Non è un brutto sogno, è tutto reale, accade davvero, anche le frasi
pronunciate ieri sera dal ginecologo lo erano... vere.

Parole precise, metalliche che ora battono a ritmo del mio cuore e mi
vibrano nel cervello: MALFORMAZIONE MACROSCOPICA, SI RIVESTA,
UN CASO SU MILLE, SI CHIAMA SFORTUNA, ACRANIA, ANESTESIA,
PREPARI UN BORSONE, MEDICO NON OBIETTORE, ABORTO
TERAPEUTICO...

E tu? Piccolo mio o mia?

Hai subito il distacco, lo schianto col fuori, la violenza di luce, senza un
lamento, un vagito, un gesto pietoso.

Una resa totale la tua, una battaglia persa in partenza... e dopo?

Dove hanno gettato i tuoi minuscoli resti? Quelle piccole, fragili ossa
incomplete, quel timido guizzo di vita?

Non ti ho sentito andare via, non ti ho voluto vedere, ho chiuso gli
occhi, voltato la testa per cancellare, seppellire, affondare e
dimenticare.

Scusa. Non ero pronta alla prova, allo sgambetto improvviso che mi ha
teso la vita.

Ma non ti ho dimenticato/a perché da quindici anni tu scalci ancora, da
qualche parte, dentro di me.


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