Silvia Sitton
Di pecore, gabbiani e altre bellezze

Questo pezzo parla di ossa. Ma visto che a me quando scrivo capita
spesso di prendere le cose alla larga, se uno inizia a leggere dall’inizio
– e di solito tutti iniziano dall’inizio, che si chiama così proprio perché
è il punto da dove si comincia – non si direbbe proprio che è una roba
che parla di ossa, e allora prima di spedirlo ci ho messo questa
introduzione per rassicurare il lettore che non sa della mia inclinazione
a prendere le cose alla larga di avere fiducia e andare avanti a leggere
oppure di saltare le prime venticinque righe così arriva prima al punto
che inizio a parlare di ossa.
A salire per il lato nord est dell’Etna non incontri nessuno, sono tutti al
Rifugio Sapienza, dall’altro lato, ad aspettare uno dei pulmini cingolati
che portano i turisti al cratere centrale senza fargli fare fatica. La prima
volta l’ho fatto anch’io, accesso dal Rifugio Sapienza, primo tratto in
funivia, poi però a piedi, niente pulmino io, non esageriamo, il tempo
in un attimo cambia quassù, mentre sali in alto la nebbia ti si appoggia
sulle spalle, così senti meno il freddo ma non vedi niente, e tra il fumo
che esce dalla terra e quello che scende dal cielo non sai dove mettere i
piedi. È una cosa che può anche fare paura, e la paura può anche farti
tornare indietro. Io però indietro non ci torno, ormai sono quasi in
cima, non ho mica paura io, io che di notte non vado neanche in bagno
a pisciare senza accendere la luce. Ma la nebbia ti fa vedere il buio
bianco, e io ho paura del buio nero, il corridoio di notte è nero, e nel
corridoio nero si nascondono i mostri, e i mostri se hanno fame ti
possono anche mangiare. Il bianco invece no, non ha mai mangiato
nessuno, il bianco al massimo ti fa inciampare.
La nebbia è così bagnata che fa venire voglia anche a me che la gente
che va in pulmino non l’ho mai sopportata di salire sul pulmino, lo
chiedo all’autista ma dice che non si può, il pulmino carica solo chi ha
fatto anche l’andata e così torno giù a piedi. Fa così freddo adesso che
per scaldarmi inizio a correre in mezzo a un canalone di lava
pietrificata, cado, la roccia è un coltello, mi squarcia i pantaloni
all’altezza del ginocchio, il taglio netto che si è aperto nella stoffa si
colora all’istante di un rosso annacquato, è il mio sangue, AB negativo.
Mi slaccio il fazzoletto dal collo e lo stringo intorno al ginocchio, la
nebbia ne approfitta per arrampicarsi sul mio mento sguarnito e mi si
appiccica alle guance attonite dal freddo.
Questo è successo un mese e mezzo fa, e non so perché sono di nuovo
qui, a più di mille chilometri da casa senza avere programmato di
esserci neanche questa volta, come quell’altra del resto, che se uno
abita a Modena e senza averlo programmato nel giro di neanche due
mesi si ritrova due volte sull’Etna, e prima non ci era mai stato e dopo
chissà se mai ci tornerà, forse vale la pena rifletterci.
Questa volta qui, la seconda che mi trovo sull’Etna, dal Rifugio
Sapienza non ci sono proprio passata, ho scelto l’altro versante, a nord
est, e non ho incontrato nessuno. Salgo per una pietraia nera, di un
colore come quando fa troppo caldo e l’asfalto ti si scioglie sotto i piedi
e si fonde con le suole, e sulle suole ti rimane uno strato di un impasto
denso tra il grigio e il carboncino, con sopra una pennellata di vernice
lucida, che non diresti mai guarda che roba nera che c’ho sotto le suole
anche se in fin dei conti è proprio una roba piuttosto nera.
Era un nero così quello che avevo sotto i piedi e sotto gli occhi, chinati
verso terra sperando di trovare in basso l’energia per continuare a
salire, un nero eccessivo, troppo anche per un paesaggio ritoccato con
Photoshop.
All’improvviso però qualcosa sposta le curve di saturazione e dove ti
aspetteresti solo nero a perdifiato spunta un imprevisto tocco di
bianco: è un bianco poroso, gentile, un bianco fuori luogo, come di
una porcellana appoggiata senza un perché su una tovaglia nera di cui
non si vedono gli angoli.
È la scapola di una pecora, un osso magnifico. Lo raccolgo
furtivamente, lo infilo nello zaino, voglio portarlo a casa, sullo stereo
starebbe benissimo, che è tutto nero, casse comprese, e il contrasto
vulcanico tra un bianco che non c’entra e il nero scontato si
riproporrebbe perfettamente anche in salotto.
Sul mobiletto del bagno invece ho la tibia di un gabbiano, trovata una
mattina di aprile di dieci anni fa sulla spiaggia di Porto Garibaldi. Devo
cambiarle posto, è un mobiletto dell’Ikea, pino svedese, legno troppo
chiaro e la tibia sopra ci si confonde, gli ospiti fanno fatica a notarla, e è
un peccato, perché la tibia di un gabbiano è un osso bellissimo, una
cosa che se uno entra nel mio bagno vale la pena che noti. Tra l’altro
non è solo un problema del mio mobiletto, anche sulla sabbia si
confonde, è stato un caso davvero fortunato trovarla, una tibia di
gabbiano è merce rara, niente a che vedere con le strainflazionate
mandibole di squalo che ormai ti vendono pure in edicola.
Comunque secondo me ci sono più probabilità di trovare una tibia di
gabbiano in mezzo alla sabbia di Porto Garibaldi che una scapola di
pecora salendo sull’Etna, che tra l’Etna e la scapola della pecora la
forza del contrasto è molto maggiore che tra Porto Garibaldi e la tibia
del gabbiano, dove è tutto un miscuglio confuso di tonalità di beige e
bianco sporco. Infatti sono sicura che se fossi salita dal lato del Rifugio
Sapienza col cazzo che la trovavo una scapola di pecora!, con tutta la
gente che ci passa dal Rifugio Sapienza se la portavano subito via, che
non si può non vederla, unica cosa bianca in mezzo a tutto quel nero.
Invece da questo lato non ci passa nessuno e così nessuno l’ha vista e
lei è rimasta lì tutta bella apparecchiata per me, che quando a un certo
punto mi è comparsa davanti, solitaria e maestosa a rischiarare il duro
paesaggio di lava che accompagnava il mio cammino pesante, le sono
corsa incontro e l’ho come abbracciata prima di infilarla nello zaino.
Ogni tanto ci penso alla pecora, e anche al gabbiano. Da vivi intendo,
penso alla loro vita, alla loro famiglia, a cosa vuol dire essere un
gabbiano a Porto Garibaldi o una pecora sull’Etna. E che essere un
gabbiano a Porto Garibaldi non deve essere troppo diverso che esserlo
in un altro posto, mentre essere una pecora sull’Etna o una pecora in
un altro posto è tutta un’altra cosa. Penso anche a dove sarà andato a
finire il resto della pecora, visto che io ho trovato solo una scapola, ma
quello che penso sul resto della pecora preferisco non dirlo. Invece
non mi faccio le stesse domande sulla tibia del gabbiano perché lì c’è il
mare di mezzo, che con tutto il lavorare delle onde è normale che ti
possa lasciare una tibia sulla spiaggia di Porto Garibaldi e l’altra sulla
spiaggia di Casalborsetti o addirittura fino a quella di Cesenatico, senza
che nessuno si stupisca del fatto di avere trovato solo una tibia di
gabbiano sulla spiaggia e faccia congetture strane su dove possa essere
il resto del gabbiano.
Sono pensieri che mi vengono così, spesso alla sera prima di dormire,
ma ogni tanto anche la mattina, oppure quando vado in bagno e è
chiarissimo che quel mobiletto color pino svedese lo devo dipingere di
un colore più scuro. E mi sono venuti questi pensieri anche un
pomeriggio che mi sono messa sul divano ad ascoltare l’ultimo disco di
Nick Cave che si chiama Skeleton e volevo provare a capire le parole
delle canzoni per vedere se parlavano di scheletri ma non ci riuscivo
perché a vedere la scapola della pecora che dopo che sono tornata
dalla Sicilia l’ho tirata fuori dallo zaino e l’ho appoggiata sopra lo
stereo come fosse un reperto archeologico (e ci sta benissimo sullo
stereo nero la scapola bianca, che sembra un allestimento di un
museo), a vederla lì in mostra i miei pensieri erano tutti assorbiti dalla
pecora e se il disco di Nick Cave parla di scheletri e di ossa non lo so.


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