La Manx
Pieghe fessure crepe
“Chi è?”
“Sono io.”
“Io chi?”
“Io!”
“Chi cerca?”
“Cerco lei!”
“Ma io non la conosco...”
“Né io conosco lei, ma se mi facesse entrare, potremmo rimediare. Porto
biscotti appena fatti, che ne dice di una bevanda calda e una piccola
conversazione amichevole?”
A questo punto, non so mai cosa risponderà la voce al citofono. Spesso,
dopo qualche secondo di vuoto, la risposta è:
“Che biscotti sarebbero?”
E’ la mia perversione: introdurmi, con biscotti, nelle abitazioni altrui per
appagare la mia smaniosa curiosità per gli interni e i loro abitatori. Non
agisco mai a caso. L’attrazione deve essere fortissima, altrimenti non
riesco a sciogliermi: sono terribilmente timida io e quel giochetto del
citofono mi sarebbe impossibile se non fossi mossa da vero desiderio.
Gli avvistamenti dei luoghi sono fortuiti. Non vado in cerca. Non
proprio. Non funzionerebbe. Camminando per la città, guardando
molto, perché io guardo tutto, mi imbatto in autentiche meraviglie che
mi paralizzano e mi invischiano d’un umore caldo interno,
inconfondibile, mentre i visceri rumoreggiano in un torcimento che è di
piacere puro.
Che turbamento provai alle prime avvisaglie della bizzarra patologia:
senso di mancamento, rapimento estatico prolungato e
sprofondamento, infine, in uno stato di grazia fino allora sconosciuto. A
quel tempo, messo comunale precario, non facevo che suonare
campanelli e picchiare portoni cercando, con performance estenuanti
consumate davanti agli spioncini, di convincere vecchiette che non
venivo con cattive intenzioni. Non so cosa fu quella volta a scatenare
tutto, forse un puzzore di cavolo bollito misto a umori di pelle avvizzita
e di urine scappate, che mi colpì come una bastonata sulla testa mentre
chiedevo permesso. Non lo so cosa fu ma, varcata la soglia, mi ero
ritrovata in una cucinetta inondata di vita altrui, mi ero
sentita immersa fino alla gola in afrori non miei, come risucchiata dalle
crepe madide della persona che lì ci abitava, costretta ad aprirmi casa
per ricevere in elemosina miseri bollini sanitari. E in quelle fessure di
esistenza quasi finita, affondavano i miei sensi scossi mentre le mie dita
giovani accarezzavano già il tavolo di fòrmica color melagrana e, di
proposito, altre dita lasciavano cadere la biro sul pavimento per
apprezzarne la fredda porosità e toccare l’appiccicaticcio di cucina
bisunta da anni. Compresi in quella stanza, di botto, cosa serviva alla
mia vita: alla mia vita servivano le case degli altri e le vite di chi ci stava
dentro. Mi appassionai così a strutture tipologie facciate, murature
cappotti intonaci, terrazze balconi ballatoi, androni vani scala sottoscala,
muri portanti tramezzi cartongessi, pavimenti di ogni epoca e materiale,
tappezzerie spietate colori odori. E ancor più fatalmente m’innamorai
delle creature abitatrici e delle loro piccole intime pieghe fessure crepe.
Non sapevo spiegarmelo meglio di così e, per una volta, non mi persi in
elucubrazioni sterili e passai all’azione sistematica. Azione che perdura,
ora come allora, rituale.
Ogni volta, tutte le volte, mi preparo: immergo il corpo nella vasca per
un bagno purificatore, essenziale, di sale integrale mondiale, mentre il
pensiero si disgrega nei vapori che soffocano la stanza. Non indugio
troppo, giusto il tempo necessario perché i biscotti rilascino dalla cucina
quella fragranza che li annuncia pronti da sfornare.
Mi vesto. Indosso biancheria pulita e vestiti consoni. Mi pettino con
tutta la cura che posso permettermi. Mi verifico nello specchio, mi
concedo sguardi e riguardi ed esco, liquida, come scivolando sull’acqua,
impaziente di tirare il prossimo campanello.
La casa di oggi l’ho scoperta qualche giorno fa, un colpo di fortuna.
Avevo affrettato il passo per sfuggire a una tizia che mi tallonava da
almeno dieci minuti. Non so che diamine cercasse da me quella donna
non abbastanza svelta di gamba, ma di sicuro non potevo esserle
d’aiuto. Ad ogni modo, per seminare l’importuna, accelerata
sensibilmente l’andatura, mi sono ritrovata, ansimante, nel cortile di
una vecchia casa, cadente oserei dire. Un sentore acre di cantina mi ha
convinto che dovevo entrarci, quindi ho verificato che ci fosse un
campanello. C’era e sembrava funzionante. Ho registrato ogni
particolare utile alla missione e sono tornata sui miei passi pregustando
l’intrusione di oggi.
...
“Che biscotti sarebbero?”
“Al rabarbaro!” rispondo pimpante, e la porta si apre.
E’ il momento. Salgo le scale come sospinta da una gioia inoffuscabile.
Otto rampe di scalini consumati da milioni di saliscendi. In cima, dritta,
una figura mi osserva. E’ una donnina senza età, distinta, con un palco
di capelli turchini e forcine sulla testa piccola incastonata nelle spalle
strette, minuta e diafana creatura. Il primo incontro di sguardi è sempre
cruciale. I suoi occhi, cerulei, aspettano i miei. Mentre mi sforzo di
esibire un sorriso carino, salendo gli ultimi gradini, sulla mia faccia
sento scattare i muscoletti frenetici dell’imbarazzo. Lei invece non
sorride e storce il musino perplessa. Eccomi davanti a lei. Per un istante
temo che non voglia lasciarmi entrare, ma no, perché mi fa cenno di
precederla e mi dice buonasera. Ci sono pattine dietro la porta e subito
ci piazzo i piedi sopra per strisciarle voluttuosamente sul pavimento di
marmittone stravecchio. Ripenso alle pattine più care della mia vita,
quelle della nonna, e al pavimento così liscio di casa sua. Erano sempre
lì, in disarmo, solo per il mio divertimento, perché alla nonna non
importava che si usassero, stavano lì da quando le era importato, forse,
molto tempo prima.
Porgo alla signora ancora un po' smorfiosa il cartoccio tiepido dei
biscotti: “Vedrà che buoni!”
Una piegolina finalmente simpatica agli angoli della sua bocca mi
tranquillizza, mi mostrerà la casa forse.
“Si accomodi” dice, invitandomi a sedere su una poltrona. Preferirei
seguirla in cucina. “Stia qui insiste su questa poltrona, la poltrona
degli ospiti.”
Inciampo per via delle pattine e cado dentro alla poltrona, su un
cuscinone di velluto color salvia da cui si alza un polverone allergenico
che sa di decrepito. La donna intanto, la sento, fa scorrere l’acqua di
cucina, riempie un tegame e lo mette a scaldare sul fuoco. Sola, in
soggiorno, incassata nel sedile sfondato degli ospiti, scruto l’ambiente,
gli arredi, inventariando grossolanamente quello che vedo: una
scrivania di ciliegio sotto la finestra, una scaffalatura bianca ingiallita
carica di piccoli oggetti anonimi e qualche libro, ricami a punto croce in
quadro appesi qua e là, muri fioriti, tendine di merletto, di quelle che
coprono solo i vetri e non gli infissi, lampadario a bracci con due
lampadine bruciate su cinque; poi, poco distante dalle mie ginocchia,
un tavolo basso, con niente sopra. Che noia però, guardare e basta. Mi
annoia a morte. Ficco la mano sotto il cuscino, nelle profondità del
velluto, sperando di estrarne oggettini smarriti ma trovo soltanto
antiche briciole e scuciture. Scalpito. Ho voglia di muovermi. Troppa,
per stare ferma. Sfioro il pavimento con le dita, freddo. Mi appoggio sui
palmi delle mani e, sollevando appena la coda, forti i polsi, mi sbilancio
in avanti scivolando a terra carponi. Metto le pattine sotto le rotule e
comincio a spostarmi nella stanza. La signora, tanto, è in cucina e non si
accorge di nulla, anzi, sospetto che stia già addentando i biscotti che le
ho portato, concepiti, in effetti, per essere irresistibili. Voglio infilarmi
sotto la scrivania. Ci vado. Se ritrovassi una matitina dimenticata, o una
gomma pane imbozzolata nella polvere, una forcina magari, oppure un
ago, gli aghi quando cadono sembrano perduti per sempre, un oggetto
qualunque che la donnina non riusciva più a trovare, ecco, sarei felice.
Di là sotto, nel pieno del mio vano razzolare, intravedo gli stinchi velati
della creatura abitatrice appostata e silenziosa e che, spazientita, dà un
raschio di gola. In un cigolio imbarazzante di giunture, riemergo senza
fiatare e mi rimetto al posto. Strano che lei, la piccola signora, non mi
rimproveri per nulla. Risprofondata nella poltrona, mi scaldo le mani
sulla tazza bollente che mi ha offerto senza esitazione.
“Assaggi i biscotti” le dico indicando il piattino in cui li ha trasferiti e
realizzando che ne mancano almeno tre.
“Beva il tè” è la sua risposta, e io lo bevo, a piccoli sorsi, soffiandoci a
mantice, perché è rovente, e non si mette il tè in infusione quando
l’acqua ha raggiunto temperature drammatiche, penso.
“Le piace il tè?”
“Mi piace, grazie, e i biscotti, li assaggi, le piacciono?”
“Assaggiati in cucina, mi piacciono, al rabarbaro... li fa lei questi biscotti
mi diceva, può darmi la ricetta?”
“La ricetta è segreta” e sorrido inorgoglita.
“Quindi li farebbe lei i biscotti, ne è sicura?”
Che strana domanda. Indisponente.
“Potrei vedere il bagno adesso? Sono un po’ annoiata da questa
stanza...” perché mai glielo sto dicendo, che indelicatezza, di solito non
mi comporto così.
“Annoiata? Che stranezza...”
“Posso vederlo? Ho idea che le piastrelle del suo bagno possano
regalarmi forti emozioni.”
“Le piastrelle del pavimento o del rivestimento?”
“Di entrambi...”
“Finisca il tè.”
“Lei mi inquieta molto, devo dirglielo signora. Mi ha accolto con
circospezione, e lo capisco, sono un’estranea per lei, un’intrusa, non v’è
dubbio. Ma sono gentile, porto i biscotti al rabarbaro... ecco, io credo
potrebbe dimostrarmi maggiore apprezzamento...” che cafoneria ho
detto, di solito non mi comporto così.
“Venga.” Si alza e la seguo. Olezzo di lavanda mi investe le narici appena
superata la soglia dell’anticamera. Accarezzo i muri ruvidi con le dita e
striscio le pattine sul pavimento respirando a pieni polmoni. La creatura
abitatrice apre la porta del bagno, accende la luce e subito il mio
sguardo si scaraventa su pavimento e pareti.
“Santi numi! Che roba è questa? Che razza di colore sarebbe?! Per l’amor
del cielo mi spieghi, mi dica!”
“Shhhhh” fa la donna afferrandomi il polso. Ha una stretta decisa ma
non stringe, ed è liscia, tiepida la sua mano. Usa la presa dello strattone
per tenermi con dolcezza. E vuole parlarmi, lo dicono i suoi occhi fissi
su di me e la sua bocca, appena mobile, come se le parole stessero per
prendere forma, suono, e mancasse solo quel poco di fiato che occorre
per dirle.
Vorrei interrogarla di nuovo ma sono incapace di proseguire ogni
indagine, come inebetita dalla piccola mano calda che mi cinge il polso.
“In questa casa ci sono nata: era la casa di mia madre e prima ancora dei
suoi genitori. Mia madre mi ha messo al mondo senza avere un marito e
non me l’ha mai fatto pesare. Era una donna coraggiosa e mi voleva
bene. Qui ho vissuto tutta la vita. In questa casa morirò.”
“Ma quelle piastrelle sono del colore della merd...” sussurro a me
stessa ma non abbastanza piano, ahimè.
“Lei, signorina, è qui perché non ha una casa dove le piacerebbe
morire. Anche ora, mentre le sto parlando, non riesce a pensare ad altro
che a quello stupido rivestimento del colore della merda, come dice
lei!”
“Sono desolat...”
“Queste piastrelle sono color testa di moro mia cara, del colore delle
castagne, del cioccolato fondente, del manto lucido di un purosangue
libero di correre, della lana che la nonna lavorava instancabilmente per
scaldarci gli inverni. La merda, lei, ce l’ha nella testa, mi dia retta!”
E mentre mi sgrida, mi innamoro di lei. Liberato il mio polso dalla presa
gentile di prima, la creatura abitatrice mi prende ora la faccia tra le mani
strizzandomi le guance. E quel gesto, così amorevole, mi riga il volto di
lacrime involontarie.
“In quel soggiorno, dove lei poco fa grufolava come un animale da
cortile, ho vissuto momenti che non posso dimenticare, momenti che
abitano qui e non smetteranno di abitarci mai. Lei signorina mi fa pena.”
Parla ancora, con la sua bocca vicinissima al mio viso in poltiglia, e sento
mille schizzetti di saliva raggiungermi senza che mi prenda la voglia di
mettere fra noi una distanza. Piccoli sputacchi che sanno di dentiera e
penetrano come balsamo nelle mie piccole pieghe fessure crepe.
Con le sue manine asciuga le mie lacrime e dal taschino del golfino che
indossa trae un fazzoletto di stoffa per il moccio, dice.
“Vorrei tanto mi tenesse qui a cena” oso dire “per sentirla parlare
ancora...”
La creatura, severa e benevola, annuisce: “Può restare, ma a due
condizioni: niente più stramberie e la ricetta dei suoi biscotti al
rabarbaro.”