Alessandro Della Santunione
Ossa

Per la incredibile magrezza e per via delle costole che si contavano una
a una, quando prima di fare ginnastica si restava mezzi nudi nello
spogliatoio, Piero Bellentani, classe ’65, era detto Ossa. Per lo stesso
motivo ma per brevissimo tempo fu detto anche Auschwitz o Biafra. Il
soprannome Auschwitz però cadde in disgrazia quasi subito, nel
silenzio generale al bar della bocciofila; cosa sai te dei tedeschi? Aveva
chiesto Baraldi, classe ’23 detto manona, smettendo di giocare a carte e
avvicinandosi al mio amico Lugli. Poi senza aspettare la risposta gli
aveva mollato una sberla di quelle date bene; e se sento quella parola
un’altra volta lo dico a tuo padre, aveva aggiunto tornando a giocare a
carte. Per prudenza abbandonammo anche il soprannome Biafra.
A Ossa le sberle non le dava nessuno perché a toccarlo faceva un po’
senso e avevi quasi paura che si spezzasse, in compenso gli dicevamo le
peggio cose perché gli era toccato in sorte di essere lo sfigato della
compagnia, quello a cui fare gli scherzi, quello da prendere in giro,
non c’è niente da ridere ma sono cose che capitano. E un pomeriggio
ci guarda un po’ smarrito e poi dice "avete visto i miei occhiali? Non li
trovo più". Anche noi lì per lì lo guardiamo un po’ spaesati ma poi
Lugli che era veramente una testa di cazzo gli dice "figurati, li avrai
appoggiati da qualche parte, dai che ti aiutiamo a cercarli" e tutti a
tirarsi gomitate e a fare l’occhiolino a chi si aggregava alla ricerca...
povero Piero, tutto il pomeriggio a cercare gli occhiali e noi a prenderlo
per il culo. Dopo un po', eravamo ragazzini, a Piero gli è preso lo
sconforto, ha pensato a sua madre, alla lavata di testa che lo aspettava a
casa e a quella sgradevole sensazione che lo accompagnava da sempre,
quella di essere diverso, quello che non faceva mai la cosa giusta, lo
sfigato della compagnia insomma. E Piero si mette a piangere. In un
angolo del bar si appoggia a piangere e mentre lo fa porta le mani alla
faccia e sente l'umido delle lacrime che gliela rigano giù, caldo per la
rabbia sente una cosa che non si aspettava di sentire, sente vetro e
plastica freddi lì sul naso, sugli occhi, dietro le orecchie e pensa che i
suoi amici, quella gente che c’ha lì intorno, sono tutti dei figli di
puttana.
Ci sono così tante cose che sono come gli occhiali di Piero, anche dei
sentimenti o delle idee, cose importanti. Le cerchiamo, le cerchiamo e
le cerchiamo in ogni dove ma sono lì, son sempre lì davanti al nostro
naso. E questa potrebbe anche sembrare una storia allegra da ricordare
oggi con Piero ma Piero poi è morto, qualche anno dopo di una
malattia che non c’era niente da fare. È morto prima di crescere e chi lo
sa di irrobustirsi, ce ne sono che lo fanno, prima sono magri magri e
poi di botto diventano dei ragazzoni, oppure prima di iniziare a fare
qualche sport, la canoa o la palestra, prima di piacere ad una qualche
ragazza che magari dopo si baciavano e si mettevano insieme e quando
poi avessero fatto l’amore lei avrebbe passato la mano sul suo petto
senza sgranare nessun rosario di dolore e costole e avrebbe pensato
invece a qualcosa di semplice e banale come l’amore o forse a un
futuro e invece Piero è morto, è morto prima di aver dato un calcio in
culo a Lugli o a un altro qualsiasi di noi, magari un pomeriggio che gli
girava male, è morto prima di un qualsiasi riscatto e quando ci penso,
quando penso che non posso neanche chiedergli scusa, dentro sento
un dolore fortissimo, come se mi avessero sbriciolato a martellate le
ossa.


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