Il Viandante
Ospiti
graditi e non graditi
Case
L’uomo è un essere organizzato: da tempi immemorabili ha mutato
l’ordine naturale delle cose a proprio esclusivo vantaggio. Discorrere di
case è senza dubbio discorrere di quello che fu, e tuttora rimane,
l’involucro artificiale di protezione dell’uomo, la scorza del suo spazio
esclusivo. Certo mutato nei millenni, ma neanche tanto. Una lontana
figura importante per la mia crescita cognitiva, l’architetto Giglioli, mi
disse una volta nel suo schietto vernacolo (si parlava appunto di case):
“Vedi... un tempo lontano si costruivano le case utilizzando terriccio,
sterco di animali e qualche elemento di rinforzo: rami, fasci di piante
erbacee. Ma, per molti aspetti, siamo solo passati da materiali organici a
materiali inorganici: nella sostanza non abbiamo cambiato nulla”. Si era
però negli anni Sessanta. Le periferie nascenti, a iniziare dall’immediato
dopoguerra, presentavano ancora un aspetto incompiuto, di transizione
fra la campagna (luogo di origine per buona parte dei nuovi residenti) e
la città extra moenia: la fascia posta ad avvolgere l’antica cerchia,
urbanizzata con grande equilibrio e cura nei primi decenni del secolo.
Nelle disordinate espansioni seguite alla cesura bellica, volte alla
speranza, esisteva ancora qualche carattere identificativo del territorio
modenese, e delle origini dei nuovi abitanti: giardini simili a orti di
campagna, con fiori rustici e durevoli, qualche pianta da frutto, verdure,
aiole senza pretese. Di tanto in tanto apparivano minuscole vigne,
addirittura qualche animale da cortile. A Modena in non poche case
della nuova periferia – e non solo – si faceva ancora il vino.
Gli sviluppi successivi hanno poi uniformato buona parte delle nuove
periferie a modelli standard, simili a quelli di ogni lembo d’Italia: una
distesa casuale ed eterogenea di condomini informi, grandi e piccoli,
alternati a casette singole, a saturare spesso spazi ristretti; con una
viabilità a volte asfittica, accidentale. Alcuni di questi, con pretese di
esclusività e dimensioni enormi, fuori scala rispetto al contesto, sono
sorti in quegli anni anche a ridosso del centro. A stravolgere il tessuto
urbanistico del primo Novecento, la sua eleganza formale; a turbare il
profilo degli edifici storici, posti di fronte, a ridosso delle mura
scomparse. E’ simbolico, di queste frettolose scelte del momento,
l’impatto del palazzone quale sfondo alla palazzina del Vigarani nei
giardini ducali.
Ospiti
Ma, tutto il modernismo scomposto, il fermento costruttivo di
quell’epoca ormai lontana non avevano impedito a diverse specie
animali, ospiti abituali dell’uomo – alcune lo erano da tempi remoti –
di stanziarsi in ogni nuovo spazio urbano. Una costante, fino a diversi
decenni fa, era la palese presenza in città dei ratti delle chiaviche. Si
mostravano numerosi lungo il greto dei non pochi canali ancora aperti
nella periferia, fino a lambire il centro; ma di notte uscivano dalle fogne
e giravano temerari intorno alle case, alla ricerca di cibo. Non era
difficile vederne anche di giorno. Noi ragazzini li guardavamo dai ponti,
con le fionde celate: ostentavano indifferenza, ma, a turno, qualcuno di
loro ci osservava. A un nostro minimo gesto, all’unisono si infilavano
rapidi nel primo pertugio, oppure si lanciavano in acqua, per eclissarsi
in un attimo sotto il ponte. Oggi, pur non essendo scomparsi, si sono
resi quasi invisibili.
Gli scarafaggi, i bgòun négher cantati da Alberto Bertoni citando Kafka,
popolavano ogni cantina del centro storico, ma erano comuni anche in
molti seminterrati, cantine e garage della periferia; a volte in qualche
appartamento ai piani bassi. Negli anni successivi, grazie a micidiali
prodotti chimici, sono stati sterminati; ritengo con qualche conseguenza
anche per gli umani. Le tortore dal collare, provenienti dall’Asia, si
diffusero in quegli anni a Modena e in altri luoghi. In poco tempo
proliferarono a tal punto da diventare invadenti e dannose. Nei dintorni
di Via Sadoleto, a due passi dal centro storico, alcune case ne
ospitavano un numero spropositato: lordavano i tetti, si
ammucchiavano in ogni luogo dei giardini. Per fortuna vi erano anche
animali innocui, a volte addirittura graditi: i ricci, presenti in ogni
giardino, i rondoni, le rondini, i passeri. Passeri e rondini sono
scomparsi da molto tempo, gli altri sono ormai rari.
Ma per illustrare la singolare corrispondenza fra uomini e ospiti,
tollerati, fra le case, mi devo allontanare dal centro urbano; volgere a un
luogo della mia memoria: casa Gottardi, un antico edificio arroccato
sulle prime propaggini dell’Appennino modenese. Dal quale,
guardando a nord, sopra il profilo rarefatto di case lontane svetta una
filiforme ghirlandina.
Fino a diversi decenni fa Casa Gottardi era una vera e propria oasi
faunistica, soprattutto per le numerose specie di uccelli che la
popolavano. Nei suoi muri, nei solai e nel tetto; sulle viti appoggiate alla
casa; nelle stalle, nei fienili e sul pozzo; in alcune stanze in rovina; al
limitare del bosco incombente: in tutti questi luoghi vivevano, e spesso
nidificavano, numerosi uccelli appartenenti a molte specie diverse. Ne
ho identificate quasi una trentina nelle mie osservazioni giovanili. Dai
primi anni Sessanta del secolo scorso, i continui mutamenti in atto
hanno via via allontanato molti di questi ospiti, fino a determinarne –
per la maggior parte – l’estinzione quali coinquilini della casa e della
sua cerchia.
I passeri erano la specie dominante, i veri padroni indisturbati della casa
e dei cortili: luoghi dove si sentivano del tutto a proprio agio. La loro
presenza garrula, la loro costante vivacità arricchivano l’atmosfera,
comunicavano allegria, facevano sentire meno soli. Ora sono scomparsi,
ormai da decenni. Chi ha conosciuto la Casa Gottardi di un tempo ne
avverte la mancanza: erano una parte integrante dell’ambiente
domestico, una caratteristica di ogni vecchio casolare; manca il loro
continuo e gaio cicaleccio, il loro viavai fra casa, cortili e campagna.
In ogni buco, crepa, anfratto dei fabbricati e del tetto vi erano i loro
nidi. Iniziavano la cova già ai primi tepori primaverili, per arrivare in
piena estate con trequattro nidiate alle spalle. La loro presenza era
numerosa e costante per l’intero anno. Finita la cova, i nidi celati nelle
cavità dei muri diventavano i loro dormitori. Con gli umani, loro ospiti
– da intendere nell’uno e nell’altro senso della parola (entrambi,
specularmente, ospitavano e venivano ospitati), – avevano un buon
rapporto: intrufolandosi fra gli animali domestici ricavavano parte della
propria sussistenza; quasi tutto il resto lo ottenevano spigolando nei
campi o beccuzzando sugli alberi da frutto intorno a casa.
Nutrivano per gli uomini una palese dedizione, rimanendo presso di
loro qualunque cosa accadesse. E questo avveniva da millenni, certo dai
tempi delle terramare. Ma questo legame non era sempre ricambiato. In
estate gli uomini guardavano con affetto fraterno il loro continuo
andirivieni tra casa e campagna, provando dentro di sé la calda
sensazione di appartenere allo stesso luogo, di vivere nella stessa
abitazione, di condividere il medesimo genius loci dei simpatici piccoli
uccelli. In inverno le cose mutavano in modo radicale: da amici pennuti
e da coinquilini, i passeri si tramutavano in prede da catturare con ogni
stratagemma. Non era sterile crudeltà: era una pratica antica volta a
integrare, quando se ne presentava una ghiotta occasione, le risorse
alimentari, allora sempre al limite del deficit. In ogni caso rappresentava
più un’azione rituale, ripetuta di generazione in generazione, che una
vera necessità. I metodi di cattura erano vari e si attuavano in pieno
inverno, quasi sempre con la neve: quando, scarseggiando il cibo, i
passeri superavano per disperazione, e necessità, i loro abituali limiti di
prudenza.
Le rondini allietavano la vecchia casa da fine marzo alla fine dell’estate.
Erano amate da tutti. La presenza di questi eleganti uccelletti era
considerata benaugurante, nessuno si sarebbe sognato di far loro del
male. A cospetto degli onnipresenti passeri, rustici e concreti,
apparivano eteree, raffinate, di un altro livello. Utilizzavano gli stessi
nidi di fango per anni; a Casa Gottardi ce n’erano in diversi luoghi. Al
loro ritorno, con l’arrivo della primavera, erano accolte con simpatia.
Un anno – mancava poco al loro ritorno – ho assistito a una curiosa
scena: A., un burbero agricoltore di un casolare vicino, noto per la
scarsa attitudine ai rapporti umani, rinforzava con le sue grosse mani
callose, e l’utilizzo di assicelle costruite apposta, un nido di rondine
pericolante. Era la medesima persona che sparava a vista ai gatti, se ne
vedeva intorno a casa: li considerava un’insidia per il suo pollame; salvo
poi, diventato anziano, tenerne uno presso di sé, per ricoprirlo di
attenzioni fino a viziarlo.
La mattina presto i contadini si recavano nei campi a falciare l’erba
fresca per le mucche; le rondini li seguivano, partecipi del lavoro.
Volteggiavano in stretti cerchi intorno a loro, abbassandosi a sfiorare il
suolo per catturare gli insetti smarriti dal movimento della falce. Con il
becco ricolmo del bottino, compivano una continua spola fra campi e
nido.
A Casa Gottardi e in tutti i casolari del vicinato le rondini sono
scomparse da molti anni, seguendo il mesto destino dell’agricoltura
storica. Solo intorno alle rare grandi stalle moderne, disperse e aliene
nel territorio, se ne vedono ancora volteggiare in numero ridotto. Ormai
del tutto incuranti delle loro dimore di un tempo, a volte si vedono
passare in gran numero, portate dalle correnti d’aria, estranee e
altissime nel cielo sopra la casa.
I rondoni avevano meno contatti con le persone. Ogni anno
nidificavano nelle giunture del cornicione a sguscio della vecchia casa,
oppure in strette fessure dei muri, il più in alto possibile. I loro voli a
schiera, il loro rincorrersi e incrociarsi a tutta velocità, con repentini
cambiamenti di rotta, a sfiorare i tetti, riempivano il cielo serale di Casa
Gottardi di gridi acuti e gioiosi.
Anche loro, come le rondini, sono rimasti un ricordo per la casa. A chi si
sofferma sulle piccole cose, anche questa scomparsa reca tristezza. E
rimpianto.