«Buon Dio,» pensò, «che mestiere faticoso ho scelto!
Dover prendere il treno tutti i santi giorni... »

Franz Kafka, La Metamorfosi

Pierpaolo Ascari
Fare come Szafranski

Un giorno di tanti anni fa, al futuro scrittore di lingua tedesca Franz Kafka
venne il dubbio che fosse arrivato il momento giusto per prendere delle
lezioni di ballo. Il giovane ci stava pensando nella sua posizione preferita, con
le lunghe gambe distese sul divano e i pugni chiusi nelle tasche, quando
all’improvviso sospettò che per ballare gli sarebbe servito un vestito apposta.
Il vero motivo per cui gli piaceva rimanere in quella posizione era che a un
certo punto le mani si dimenticavano di avere le tasche intorno, che
diventavano mani in tasca di un altro. Deliziato da quella sensazione, il
giovane commise poi la leggerezza di parlare della sua rinuncia alle lezioni
con la madre, la quale lo incoraggiava sempre a trovare una ragazza. Ho
mandato a chiamare il sarto, disse più tardi la madre. Che sarto, domandò il
giovane. Il sarto per le tue lezioni di ballo, disse la madre. E infatti arrivò il
giorno dopo un sarto da Nusle che all’epoca dei fatti non era ancora un
quartiere di Praga. Ma se uno accettava di prendere delle decisioni meno
storiche come il taglio di un abito, poi si ritrovava a dover decidere tutto il
resto, così la pensava il giovane, per cui appena giunse il sarto lo informò che
c’era sicuramente stato un equivoco. Non gli dia retta, insistette la madre,
questo qua non ha neppure un abito della festa. Ma lo aveva detto in un
modo tanto sbrigativo che anche a lui, improvvisamente, quella mancanza
fece molta impressione, per cui si rassegnò ad ascoltare la madre e l’artigiano
che facevano i loro discorsi. A un certo punto, però, mentre quei due
parlavano di frak, si vide costretto a precisare che se di un abito non aveva bisogno in generale, figuriamoci di un frak. Non gli dia retta, insistette la
madre, se fosse per lui indosserebbe tutti i giorni la stessa giacca. Si stabilì
allora che il vestito più appropriato alle lezioni di ballo e che al tempo stesso
poteva risultare più simile alla solita giacca fosse lo smoking, anche secondo il
giovane, ma nel corso del dibattito sarebbe poi emerso che lo smoking andava
indossato con un panciotto, una camicia bianca e un collo della camicia tanto
rigido che agli occhi del giovane non lo rendevano meno ridicolo del frak.
Sempre che, disse. Sempre che cosa, domandò la madre. No niente, fece il
giovane. Ma la madre non ammetteva reticenze e così il giovane provò a dire:
sempre che il sarto non fosse stato così abile da confezionargliene uno come
quello che lui aveva visto in una vetrina di abiti usati sull’Altstädter Ring.
Certo, sull’Altstädter Ring, uno smocking chiuso fin sopra che di conseguenza
poteva fare a meno di panciotti e camicie. Ma uno smoking del genere non
esisteva, diceva il sarto. L’ho visto coi miei occhi, assicurava il giovane. Lo
escludo, insisteva il sarto. Fa male, diceva il giovane. Poi tanto non le
servirebbe a niente, affermava il sarto. E perché mai, chiedeva il giovane.
Perché tutto chiuso le impedirebbe di ballare, spiegava il sarto. Ma io non
devo ballare, precisava il giovane. Certo, diceva il sarto. Certo, chiedeva il
giovane. Certo, ripeteva il sarto. Ma che lo smoking chiuso fin sopra non
esisteva, quel sarto di Nusle lo stava ripetendo con una faccia così antipatica
che adesso bisognava proprio verificare chi aveva ragione. Mi dia retta,
ribadiva adesso, quello che ha visto sull’Altstädter Ring non era un vero
smoking. Era era, diceva il giovane mentre quei due si incamminavano verso il
negozio di abiti usati.
A volte si domandava come facesse il cuore a pompargli il sangue fino
alla punta dei piedi. Inoltre soffriva spesso di emicrania e ancora più spesso di
male alla pancia, per cui non era certo il tipo che si entusiasma a correre da
qualche parte per fare dei controlli. Giunti sul luogo, poi, lui stesso dovette
ammettere che lo smoking chiuso fin sopra era scomparso dalla vetrina e che
per quanto si sforzasse di allungare il collo non lo vedeva neppure all’interno.
E così lui e il sarto ritornarono sui loro passi con un’opinone ancora peggiore l’uno dell’altro. Per il giovane uomo, poi, la scomparsa dello smoking chiuso
fin sopra poteva significare solo una cosa, che quelle lezioni erano maledette,
loro e la loro idea. Di conseguenza, quando furono nuovamente a casa,
approfittò della prima occasione per invitare il sarto a tornarsene da dove era
venuto e solo più tardi, ripensandoci, non avrebbe saputo dire se tutta quella
vicenda gli avesse procurato più allegria o dispiacere. Lì per lì no, anche se il
sarto lo doveva aver considerato il più incapace tra tutti i clienti che in tutta la
sua carriera di sarto di Nusle gli fosse mai capitato di servire, lì per lì il futuro
scrittore di lingua tedesca Franz Kafka provò solo un grandissimo sollievo.
Allegria e dispiacere venivano poi sempre insieme, c’era poco da fare, se
lo era anche scritto sul diario: «Vivo qui come fossi sicurissimo di una seconda
vita». Ma questa seconda vita non era solo il pensiero di una vita migliore che
serviva a sopravvivere in quella di adesso, perché così sarebbe normale.
Quando per esempio gli passavano quei terribili dolori alla pancia, si andava a
piazzare davanti alle vetrine di un certo salumiere per divorarsi tutte le
salsicce con la fantasia. E visto che non gli bastavano le salsicce immaginava di
ingoiare un costato intero, con le ossa e il resto, senza masticarlo, per
poterselo poi sfilare dalla bocca e scorticarsi idealmente le budella. Poi
passava davanti alle botteghe di qualsiasi genere alimentare anche le più
luride e si abbuffava mentalmente di aringhe, cetrioli, scatole di caramelle e
cibi avariati o piccanti, in modo da vedere chiaro come si poteva stare male
nella seconda vita dello stare bene. C’era poco da fare, venivano sempre
insieme allegria e dispiacere. Anche al rientro a casa, non solo al rientro da
quelle sue abbuffate fantastiche ma in generale, anche al rientro dal lavoro in
ufficio o dalla passeggiata di quel pomeriggio con il sarto di Nusle, se invece
di andarsi a coricare sul divano con i pugni chiusi in tasca a riflettere sulle
lezioni di ballo si metteva alla scrivania, per lui era come essere finito in Place
de l’Opéra, cadere al centro della piazza e fratturarsi due gambe. La cosa
strana è che le vetture che sfrecciavano in Place de l’Opéra non facevano
rumore, ma silenzio. Per il resto era poi molto frequente che la pancia gli
facesse male davvero, come quella volta che camminando sulla Ferdinandstrasse gli erano venuti dei cattivi pensieri dal futuro. Così lui aveva
pensato: «Venite pure cattivi pensieri, venite adesso che sto male,
approfittatene per farvi pensare fino in fondo!». E difatti i pensieri se n’erano
andati, come se non stessero dentro a un giovane impiegato delle
assicurazioni con un gran dolore alla pancia ma in bocca a una pantera.
Perché la seconda vita era già qui, aveva scritto sul diario, cioè dentro e
duarente la prima.
La cosa strana, piuttosto, per uno con la dolcezza universalmente
riconosciuta al futuro scrittore di lingua tedesca Franz Kafka, era il duello fino
all’ultimo respiro che aveva ingaggiato con il sarto. Perché la sua qualità
principale era proprio il rispetto. Una volta si era addirittura inchinato di
fronte a un cieco, era stato verso i vent’anni, in un pomeriggio d’autunno a
casa di Oskar Baum. Accadde infatti che Oskar Baum, non essendo abituato a
ricevere degli inchini, che tanto non li vedeva, si era inchinato convinto che il
futuro scrittore di lingua tedesca Franz Kafka non si sarebbe mosso, così che i
due avevano rischiato di tirarsi una testata. Poi potevano esserci delle
eccezioni, certo: oggi ho commesso tre insolenze in poche ore, scrive. La
prima con un controllore del tram, la seconda con una persona che mi
stavano presentando e la terza non c’era, in realtà, a pensarci bene le
insolenze erano state solo due, anche se dopo che lui si era comportato male,
l’uomo che gli stavano presentndo lo aveva addirittura salutato con gentilezza,
per cui forse come insolenza valeva doppia, ma in generale il futuro scrittore
di lingua tedesca Franz Kafka era uno degli uomini più miti e rispettosi del
mondo. Solo che con gli abiti di quel sarto doveva avere un problema, ecco il
punto, un problema molto serio che forse risaliva ai vecchi tempi del
ginnasio, quando il giovane si intratteneva con Hugo Bergmann a discutere di
Dio o a sostenere la causa dei boeri contro l’impero britannico, magari con il
garofano rosso che spuntava dal taschino della solita giacca, perché allora era
un socialista. In una di quelle conversazioni, infatti, proprio mentre stavano
passando di fianco alla torre del municipio di Praga, lui aveva criticato l’idea
che il mondo fosse davvero uguale a un orologio e che dall’indiscutibile esistenza degli orologiai, quindi, per quanto non ci fossero dubbi
sull’evidenza terrena di qualcosa di simile ai riparatori di orologi e nessuno
volesse negarla, non se ne potesse ricavare una prova altrettanto inconfutabile
dell’esistenza di Dio. Ma questo bel ragionamento gli era piaciuto solo perché
non aveva riflettuto abbastanza su quali fossero le vere ragioni per cui si
distingueva dagli altri, dirà, che non riguardavano tanto la sua capacità di
ragionare quanto gli abiti in cui lo faceva. Ed erano abiti così brutti soltanto
perché dentro c’era lui tutto incurvato, per cui aveva deciso che sarebbe stato
non solo inutile ma addirittura dannoso acquistarne dei nuovi, che se non
altro a quelli vecchi la gente si era già abituata. Poi anche la postura, tutto
sommato, anche se sua madre quando andavano in giro la domenica gli dava
sempre delle spinte perché tenesse la schiena dritta, anche quella non serviva
aggiustarla. Se davvero c’era bisogno di qualcosa, all’epoca, era che i suoi
genitori continuassero a sostenere che a lui non importavano le cose come i
vestiti e il portamento, anche se andare nel mondo vestito così gli importava
eccome, perché poi si rendeva conto che gli altri erano vestiti meglio, ma più
lui sembrava indifferente più i genitori glielo rimproveravano e più a
distinguerlo dagli altri come giovane uomo indifferente a certe cose frivole e
superficiali potevano essere i suoi bei ragionamenti. Poi un giorno sarebbe
sicuramente avvenuto un miracolo e avrebbe smesso di chiudere le spalle, si
sarebbe comperato un bel vestito nuovo e sarebbe entrato al galoppo nel
quartiere ebraico per liberare una ragazza dal padre che la bastonava sempre,
ma intanto se ci pensava adesso, all’avvenire, gli veniva in mente che già si
meritava di venir bocciato a fine anno scolastico, figuriamoci il resto. Se ci
pensava, anche adesso, gli sembrava stranissimo che il cuore riuscisse a
pompargli il sangue fino alla punta dei piedi invece di fermarsi alle ginocchia,
altro che vestiti nuovi. Li indossava nella seconda vita, magari, quella della
ragazza infelice che intanto rendeva ancora più distintamente brutta la solita
giacca, ma nella prima era sicuro di morire prima dei quarant’anni e che se
anche fosse sopravvissuto, al limite, avrebbe sposato una vecchia con gli
incisivi tutti enormi che le spuntavano dal labbro. E comunque sarebbe morto sicuramente prima, il male che gli veniva alla testa non lasciava speranze, per
le sue spalle dritte e i suoi abiti non c’era niente da fare. Ma indovinate un po’
da dove veniva il guardaroba della prima vita, quella senza la ragazza infelice
da salvare? Lo ricorda sul diario il trentun­dodici del 1911: «Alternativamente
da singoli clienti, specialmente da un sarto di Nusle».
A rovinare la sua prima vita era stata l’educazione. C’era anche che a
volte si sentiva sfiorare la testa da un ramo, anche in casa, ma se tutti i
problemi avevano avuto un loro big bang per lo scrittore di lingua tedesca
Franz Kafka non c’erano dubbi che fossero cominciati dall’educazione. Ecco
qual era l’elenco delle persone che lo avevano educato male: il padre e la
madre, alcuni parenti e poi singole persone che passavano a trovarli, una
bambinaia giallo­nera in faccia, diversi scrittori, una determinata cuoca che
per un anno lo accompagnò a scuola, un gruppo di maestri, un ispettore
scolastico, dei passanti in cammino a passo lento, alcune fanciulle delle
lezioni di ballo, un insegnante di nuoto, un bigliettaio, la gente del posto nei
luoghi di villeggiatura, alcune signore ai giardini pubblici «che uno non lo
crederebbe», un barbiere, una mendicante, un pilota, il medico di casa, un
cartolaio, un guardiano del parco e tanti altri ancora che se a ventisette anni ci
avesse dovuto ripensare non gli tornavano neanche più in mente. Anzi, a
godere di una buona memoria non si sarebbe salvato proprio nessuno, né dei
vivi né dei morti, perché a educare gli educatori che poi avevano educato
qualcun altro in modo tanto nocivo erano state tutte le generazioni delle
generazioni, per cui adesso c’era poco da parlarne, tanto più che quando la
gente muore, con tutta la venerazione per i morti che le hanno insegnato, una
volta morta non sta di sicuro ad ascoltare uno vivo che la accusa di qualcosa.
Da parte di madre, lui avrebbe dovuto vedersela con una nonna materna
morta giovane di tifo, educata da un bisnonno che d’inverno faceva dei buchi
nel ghiaccio per tuffarsi sottacqua e che a sua volta era stato educato da un
trisnonno del grande scrittore di lingua tedesca Franz Kafka che solo per dirne
una c’era stato un incendio che aveva bruciato tutte le case intorno alla sua,
tanti anni prima, ma la sua niente. La moglie di quello che faceva i buchi nel ghiaccio era diventata molto malinconica in seguito alla scomparsa prematura
della figlia malata di tifo e un giorno l’avevano trovata morta nell’Elba, ma al
di là di tutto, solo per capire, quando quello che nuotava nel fiume ghiacciato
era morto anche lui, la mamma del futuro scrittore gli aveva dovuto chiedere
scusa delle proprie mancanze di figlia mentre con la manina di sei anni gli
stringeva gli alluci morti dentro la bara. E questo solo come nonni e antenati
materni, perché dall’altra parte c’era invece la nonna che in punto di morte
aveva sollevato la testa dal cuscino per essere certa che fossero tutti usciti
dalla sua stanza tranne l’infermiera per poi morire soddisfatta. Per cui uno
con il cuore che dio solo sapeva come gli pompasse il sangue fino alla punta
dei piedi invece di fermarsi alle ginocchia, uno che la massima soddisfazione
gliela davano sdraiarsi sul divano con le mani in tasca oppure quando aspetti
qualcuno per strada e guardi l’ora mentre cammini avanti e indietro, uno che
faceva l’inchino anche ai ciechi o si metteva davanti alle salumerie per
mangiare delle salsicce di fantasia, ecco: uno così che per fortuna sarebbe
morto sicuramente prima dei quarant’anni oppure avrebbe sposato una
vecchia con gli incisivi tutti enormi che le spuntano dal labbro superiore, uno
che tante volte aveva la sensazioni di avere delle mani troppo pensati per le
sue braccia, ecco: uno così poteva davvero rimproverare qualcosa a dei morti
che facevano dei buchi nel ghiaccio per andarci a nuotare dentro? No, non
poteva.
Sta di fatto che un giorno mentre osserva un certo Szafranski capisce
tutto. La cosa strana che nota di questo Szafranski è che mentre dipinge
sembra rifare con la faccia tutto quello che intanto dipinge. E allora pensa di
essere così anche lui, il futuro scrittore, che quando sta vicino a qualcuno
diventa subito uguale, per cui sente di avere dei pensieri e delle caratteristiche
che stavano dentro la faccia che gli è venuta, cioè quella dell’altro, solo che
non li conosce. E chissà allora quanti e quali pensieri sconosciuti gli hanno
fatto venire le facce di tutti gli educatori che ha avuto in faccia: chissà! Ma non
che a vederlo da fuori si sarebbe potuto sospettare, alla fine aveva le gambe e
il cappello come tutti gli altri, solo che dentro c’era qualcosa dell’educazione che se da fuori gli fosse mancato un labbro o un pezzo d’orecchio sarebbe
stato più vero. Anche con una testa a ciuffi di capelli come quella degli
ustionati sarebbe stato più vero, ma per fortuna da fuori non si sarebbe detto.
E difatti c’era una ragazza che circa un anno prima gli aveva addirittura chiesto
se lo poteva vedere tutto nudo, per baciarlo.
Pochi giorni dopo che aveva capito il suo problema, quindi, il futuro
scrittore di lingua tedesca Franz Kafka si recò in visita dal dottor Steiner, che
allora era molto famoso. Si diceva che guarisse addirittura i malati con i colori
e che si tenesse in contatto con i suoi discepoli attraverso la telepatia, solo
che poi loro si dimenticavano dei pensieri che lui gli aveva mandato e doveva
rifarli. Tanto che due o tre sere prima, quando il futuro scrittore aveva
raccontato a una vecchia seguace di Steiner di volerlo andare a trovare, si era
sentito rispondere che non era vero. Le assicuro, aveva insistito il giovane. Le
assicuro di no, aveva risposto la vecchia. Di no che non ci voglio andare, aveva
domandato il giovane. Di no che non lo sta volendo adesso, aveva precisato la
vecchia. E allora quando, aveva chiesto il giovane. Tanto tempo fa, gli aveva
rivelato la vecchia. E quindi adesso che ci voglio andare cosa sto facendo, si
era interessato il giovane. Se lo sta ricordando, aveva spiegato la vecchia.
Il dottore riceveva al secondo piano di un hotel.
Al suo ingresso nella sala d’attesa, il giovane con la solita giacca fu
accolto da una signora che non voleva saperne di entrare per prima. Entri
prima lei, disse la signora. Posso aspettare, rispose mite il giovane. Si diceva
che una volta Steiner avesse visitato una paziente francese e che lei
andandosene gli avesse detto au revoir e che lui senza farsi vedere avesse
scosso la testa e che infatti la francese fosse poi morta. C’era prima lui, disse
la signora quando il dottore entrò sorridente nella sala d’attesa. In realtà il
futuro scrittore di lingua tedesca Franz Kafka lo aveva già intravisto mentre
arrivava dal corridoio, ma solo quando gli fu proprio vicino si accorse che la
bella giacca nera del dottore, quella che durante le conferenze serali sembrava
tanto nera da fare luce, se la vedevi come adesso alle tre del pomeriggio era
tutta impolverata e piena di macchie d’unto. Una volta entrato nello studio di Steiner, gli premette innanzitutto dimostrare quanto fosse umile e rispettoso e
posò il cappello su un affare che a tutti gli altri serviva ad allacciarsi le scarpe.
Poi si guardò intorno, anzi: desiderò di farlo, perché il dottore lo fissava così
intensamente che per un uomo somigliante a Szafranski diventava
obbligatorio guardarlo anche lui. Fu per questa cosa degli occhi e degli
sguardi, forse, visto che dietro alla faccia che adesso gli stava interiormente
venendo si sentiva il padrone di casa, che cominciò a parlare come se il
famoso dottore lo fosse venuto a trovare. Mi piacerebbe molto approfondire
la conoscenza delle sue idee, disse, ma purtroppo non ho tempo. Perché
vede, disse, io sono felice soltanto quando scrivo, solo che per mantenermi
non basta scrivere, che già vado lento, ma devo anche fare l’impiegato delle
assicurazioni. Mi creda, disse, ho già tante cose da fare che mi occupano tutto
il tempo, non ne posso aggiungere un’altra. Già così sono infelice perché
penso che se mi dedicassi a una cosa sola invece di due la farei meglio,
figuriamoci tre. Mi piacerebbe, le assicuro, ma se adesso decidessi di
approfondire la conoscenza delle sue idee sarebbe un disastro. Poi se lei
crede ne possiamo riparlare, ma per come la vedo io sarebbe meglio di no. Io
già mi sento male quando la notte scrivo qualcosa di buono e il giorno dopo
al lavoro penso solo a quello, invece delle assicurazioni, oppure quando in
ufficio lavoro bene ma non sono completamente felice perché in fondo vorrei
solo scrivere, per cui, dico per me, poi se per lei è molto diverso la ascolto,
sarebbe meglio finirla qui.
Ma non erano stati solo gli occhi, probabilmente, perché il discorso in
parte se lo era preparato, perché la stessa cosa di Szafranski la poteva fare
anche quando le persone non le aveva di fronte ma le pensava solo. E infatti
se gli veniva in mente di avere una faccia, anche da solo, diventava subito il
futuro scrittore di lingua tedesca Franz Kafka che ci stava dentro. Intanto,
comunque, Steiner aveva continuato tutto il tempo ad annuire e a infilarsi il
fazzoletto nel naso, perché aveva un brutto raffreddore. Come era andata,
quindi? Ma come vuoi che fosse andata.
Sono mesi tremendi che non dorme, soprattutto l’autunno dopo, anche per tre o quattro notti di fila. Prima si addormenta, poi gli sembra di non
essersi mai addormentato e fino alla cinque rimane a vedere quello che nel
frattempo combinano i suoi sogni. E’ anche un problema di pelle sottile. Poi
si addormenta tutto, ma senza più nessuno di guardia i sogni diventano
terribili e quando si risveglia la mattina dopo se li ritrova ancora tutti lì
intorno da sistemare. Colpa dello scrivere, comunque. Comincia la sera, dopo
che per alcune ore è rimasto ad allungare le gambe e dimenticare i pugni
nella tasche sul divano della sua stanza, dove dalla porta a vetri arrivano una
luce verdognola che poi diventa biancastra. Comincia la sera e pensa come si
nota bene, che quando hanno arredato la stanza non c’era nessuna donna a
controllare come si vedevano le luci della casa e della strada se uno a
quell’ora della notte si sdraiava sul divano. Subito la scrivania per scrivere
diventa Place de l’Opéra a Parigi, dove lui si è appena fratturato due gambe e
le vetture producono silenzio. Lui è l’uomo caduto in mezzo al traffico, ma
piano piano i pensieri dello scrivere sovrastano qualunque altra sensazione
della prima e della seconda vita. Sono pensieri ma anche nodi nel legno con
una loro forma e basta, che li può solo sentire come un nodo interiore di
carne. E li continua a sentire forti e carnali anche dopo, quando verso mattina
si mette a letto, tanto che poi la pelle intorno a quella sensazione gli sembra
così sottile da poterci fare dentro e fuori, da starci dentro a sognare e uscire di
fianco a vedere. E’ rispetto alla potenza viscerale dello scrivere che le vite
sono due e le pelli sottili. Ma oltre a disincarnare vite seconde, la potenza
annodata dello scrivere si incarna negli incubi che rendono quei mesi
tremendi, soprattutto in autunno e verso l’inverno. E così da quel suo
dormire e non dormire balzano fuori delle donne vive di cera o dei cani che
gli si accucciano sul petto, tanto che poi si sveglia ma per paura di vederli non
apre gli occhi. Oppure una bambina con degli occhiali stranissimi, con
un’asticella conficcata nella carne dello zigomo e le lenti che aderiscono tanto
agli occhi da renderli enormemente spalancati. Lo racconta anche in ufficio:
nel sogno la bambina era una figlia di sua zia, che in realtà ha solo figli
maschi, mentre la cosa degli occhiali, dopo capisce che sono solo un ricordodegli occhiali di sua madre che la sera, quando giocano a carte, lo rimprovera
sempre dandogli da sopra la montatura delle brutte occhiate. Ma d’altronde
scrivere di giorno non si può, neanche la domenica che non c’è l’ufficio.
Quelli di casa sbattono le porte, sbattono gli sportelli delle stufe, qualcuno
gratta via la cenere, qualcun altro entra senza bussare nella sua stanza, è suo
padre in vestaglia che apre gli scuri. Una sorella urla in corridoio, l’altra si
viene a sedere in Place de l’Opéra e comincia a pulirsi i denti con i suoi
biglietti da visita, quelli delle assicurazioni. E quando finalmente si distingue
solo il canto dei due canarini, perché i rumori più forti sono finiti, a lui
rimane solo voglia di aprire piano piano la porta e di strisciare come un
serpente fino alla camera delle sue sorelle, per pregarle di fare sempre
silenzio. Cosa volete mai, del resto, nonostante tutte le sue stranezze il futuro
scrittore di lingua tedesca Franz Kafka aveva capito molte cose. Per esempio
che fare come Szafranski significava anche diventare serpente, nella seconda
vita dei canarini che sentiva. E che non avrebbe raggiunto i quarant’anni,
anche su quello non si era sbagliato poi molto, perché in effetti morì poco
prima dei quarantuno e di incontrare la vecchia con gli incisivi fuori dal
labbro che gli sarebbe toccato sposare.