der Wanderer
Armi & bagagli

Armi
Il luogo
Una  stanza  lunga  e  stretta  in  abbandono,  regno  della  polvere  e  dei 
ragni; scarsi raggi di luce, filtranti da un’unica finestra in parte sbarrata 
alla  meglio.  Due  vecchie  cassapanche  sfasciate.  Al  loro  interno:  ignoti 
stracci multicolori; finimenti e varia per cavalcare: staffe, cinghie, resti 
di  selle,  morsi  e  briglie.  Cuoio  e  ferro  datati.  Ma  anche:  sciabole 
incredibilmente  lucenti,  intonse  nei  loro  foderi,  quasi  fossero  nuove; 
una vecchia pistola del XVIII secolo, con inserti d’argento e dal manico 
tarlato, resa poi inoffensiva dalla piombatura della canna. Nella stanza, 
fori di tarli e segatura ovunque vi fosse legno: porte, cornici, mobilia, 
travi,  quanto  rimaneva  dell’assito.  Un  odore  proprio:  acidulo,  forte, 
diverso;  variabile.  Suoni:  un  ronzio  continuo  di  mosche  intrappolate 
dai  ragni;  un  “Cric,  cric,  cric”,  ad  libitum:  ticchettio  ossessivo  di  tarli 
intenti al loro operare senza tempo.
Così  si  presentava  nel  dopoguerra  questo  luogo  atipico.  Da  quasi  un 
secolo ridotto a ripostiglio, un tempo era stato l’anticamera speculare 
per  due  grandi  vani  importanti:  la  sala  estiva  e  quella  d’inverno, 
separate  da  una  smisurata  cucina.  La  prima,  dall’alto  soffitto,  volta  a 
nord  e  alla  brezza  della  valle,  permetteva  di  soggiornarvi  al  fresco  in 
estate; la seconda, ricevendo la luce del sole da levante, mezzogiorno e 
ponente,  con  l’aiuto  di  un  grande  camino  era  il  luogo  ideale  per  la 
stagione  fredda.  A  patto,  però,  di  restare  molto  coperti,  di  avere  uno 
scaldino  sotto  i  piedi.  Diversi  atti  notarili,  rogati  nella  casa, 
testimoniano,  indicandole,  queste  scelte  logistiche  stagionali. 
Tutt’intorno,  nell’anticamera  in  disuso,  dalle  travi  del  soffitto 
pendevano antiche ragnatele, plasmate dal tempo e dalla polvere greve 
in forme sinuose, di consistenza tridimensionale. 
Mi recavo spesso in quel luogo dimenticato della grande vecchia Casa 
Gottardi. Vi si respirava un’atmosfera concreta, come si fosse fermata in 
un attimo del passato: quasi uno spazio murato e avulso dal trascorrere 
del tempo. Un giorno vi trovai, nascosta fra vecchi mattoni, una palla di 
cannone  in  ferro.  Pesava  diversi  chili  ed  era,  per  la  mia  giovane  età, 
difficile da alzare. Un tempo nella casa vi erano stati dei lunghi fucili ad 
avancarica, qualche anziano me ne aveva parlato. Forse erano solo armi 
da caccia. Scomparvero durante l’ultima guerra. Si favoleggiava che ve 
ne fosse uno in ogni camera, sempre carico, pronto per ogni evenienza.
Tutto questo proliferare di oggetti preposti all’offesa, di armi, anche se 
in parte di valore simbolico, mi stupiva. L’immaginario della mia tenera 
età  mi  mostrava  alcuni  miei  avi,  in  luoghi  lontani,  lanciati  al  galoppo 
verso orde di turchi, urlanti, esotici: con le loro corte scimitarre, i loro 
grandi cappelli a ciambella e le vesti lunghe e larghe quasi a limitarne i 
movimenti. Proprio come se li raffiguravano, senza mai averli visti, certi 
pittori  europei  del  Sei­Settecento.  I  miei  avi,  dunque,  impegnati  sui 
loro  destrieri  a  decapitarne,  instancabili,  un  numero  impressionante, 
uno  dopo  l’altro  con  le  loro  sciabole  lucenti;  quasi  fosse  un  gioco  di 
birilli. Forse le sciabole viste nella cassapanca erano ancora scintillanti, 
dopo  due  secoli,  per  il  grande  uso  che  ne  era  stato  fatto:  lustrate  e 
polite  da  fiumi  di  sangue.    Nella  palla  di  cannone  vedevo  il  veicolo 
usato dal barone di Münchhausen per girare il mondo. Chissà, forse un 
giorno  era  capitato  da  quelle  parti  e  aveva  cambiato  il  mezzo  di 
trasporto, lasciando l’usato in ricordo ai suoi ospiti. Vedevo gli schioppi 
dalle  lunghe  canne  spuntare  dalle  feritoie  tuttora  presenti  nel  retro 
della casa, non per uccidere inermi animali, ma per colpire truculenti 
assalitori, con il coltello fra i denti, provenienti dal bosco vicino.
Qualche  anno  dopo  ho  dovuto  ricredermi:  fantasie  a  parte,  nel 
Settecento e prima, i proprietari di Casa Gottardi nulla avevano a che 
fare  con  i  miei  avi.  Abitatori  di  quel  luogo  solo  dagli  anni  Novanta 
dell’Ottocento – pur possedendolo da tempo – e fino al trasferimento 
definitivo a Modena, avvenuto durante il Ventennio. Lo erano invece da 
sempre gli esponenti di una singolare famiglia: i Gottardi San Martini, 
votati fin dal Cinquecento al mestiere delle armi. Fra loro vi sono stati 
commissari  militari,  funzionari  del  Ducato  e  non  pochi  ufficiali 
dell’ordinamento  militare  estense.  E  questo  spiega  le  sciabole 
d’ordinanza e il resto, lasciate, insieme ad altre anticaglie ormai inutili, 
alla  vendita  dell’antico  edificio.  Avvenne  il  31  dicembre  1845,  per 
interposta  persona,  a  mia  bisnonna  Beatrice,  allora  di  appena  dieci 
anni.  La  famiglia  degli  antichi  proprietari  non  era  sopravvissuta  agli 
sconvolgimenti  napoleonici:  perduti  i  privilegi  dell’ancien  régime, 
dopo  secoli  di  prosperità  era  andata  in  rovina.  Ma  la  particolarità  dei 
Gottardi San Martini, da sempre homini d’arme, è un’altra, e in totale 
contrasto con la prima.

Bagagli
La seconda dimora
Nel  corso  di  una  lunga  ricerca  storica,  volta  ad  altre  mete,  mi  sono 
imbattuto in uno straordinario documento, credo unico nel suo genere 
per  gente,  tutto  sommato,  comune.  Un  diario  autografo  passato  di 
generazione  in  generazione  in  famiglia,  iniziato  nel  1503  e  terminato 
nel 1821: Il Libro dei Ricordi della famiglia Gottardi San Martini. Il 
diario è composto da 32 pagine. Conservato in origine all’Archiginnasio 
di  Bologna,  si  trova  alla  Biblioteca  estense  universitaria  di  Modena. 
Casa Gottardi, oggetto delle note precedenti, era la residenza abituale 
della famiglia. A quei tempi – e in parte ancora oggi – ariosa, fruibile, 
elegante;  immersa  e  isolata  fra  prati,  boschi  e  torrenti;  allora  chiusa 
all’interno  delle  sue  mura  come  un  piccolo  maniero  e  circondata  da 
una  vasta  proprietà.  Un  luogo  da  vivere,  da  cui  trarre  beneficio 
spirituale,  appagamento.  Ogni  sua  stanza  era  decorata  da  affreschi  a 
tema: la camera dell’uva, la camera rossa, quella dei santi protettori, la 
loggia  di  Afrodite  e  Athena...  Purtroppo,  non  è  rimasto  molto.  La 
seconda  residenza  di  famiglia,  più  formale,  era  quella  “urbana”,  sorta 
nella nascente Pavullo del XVI secolo, poi ampliata e abbellita nei secoli 
successivi  e  dotata,  al  pari  della  prima  abitazione,  di  un  oratorio 
privato. Era il luogo di rappresentanza per gli esponenti della famiglia 
con incarichi pubblici nella provincia del Frignano (vi sono stati anche 
notai e podestà), trovandosi sempre dirimpetto a una importante via di 
comunicazione:  la  medievale  Strada  ducale,  sostituita  in  seguito  dalla 
Via Vandelli, poi dalla Via Giardini. Tutte dirette in Toscana. Fino a metà 
del Settecento la famiglia possedeva anche un’altra dimora nel distretto 
di  Modena  chiamata  Alle  quattro  torri,  abitata  saltuariamente.  Oggi, 
estinta da quasi due secoli la famiglia, della casa di Pavullo dei Gottardi 
San  Martini  rimane  solo  una  porzione  ristretta.  Irriconoscibile,  se  si 
escludono,  quali  inserti  fuori  luogo,  i  portali  storici,  per  una  infelice 
ristrutturazione del secolo scorso. 
Ebbene,  in  quella  dimora  in  parte  secondaria  i  Gottardi  San  Martini 
collezionavano  ospiti  illustri.  Nel  diario  sono  descritte,  a  volte  in 
modo minuzioso, tutte le visite e i soggiorni di personaggi importanti, 
in un continuo viavai di carrozze e bagagli. La calligrafia cambia con il 
trascorrere  del  tempo,  seguendo  le  mode  del  momento  e  con 
l’avvicendarsi,  in  oltre  tre  secoli,  di  chi  compilava  il  diario.  Fra  tante 
espressioni  di  piaggeria  verso  i  potenti,  in  sintonia  con  il  clima  del 
tempo,  non  mancano  commenti  pittoreschi  e  velati  toni  ironici  in 
alcune  situazioni.  In  quella  casa  hanno  soggiornato  a  più  riprese 
personaggi  di  passaggio,  diretti  o  provenienti  dalla  Toscana  e  oltre. 
Spesso i duchi di Modena, a partire da Francesco III, e fino all’ultimo: 
Francesco V d’Austria­Este, sempre in attesa che venisse completata la 
loro dimora di Pavullo. Tra gli ospiti annotati troviamo la duchessa di 
Parma e quella di Lucca, la regina di Sardegna, il re di Svezia, il futuro 
zar  di  Russia,  la  principessa  Cybo  Malaspina  di  Massa,  sposa  del 
principe  ereditario  di  Modena.  Andava  e  veniva  dalla  Versilia  sempre 
con  un  seguito  numeroso.  Nel  diario,  fra  i  grandi  del  tempo  ospitati 
non  mancano  l’imperatore  d’Austria  e  suo  fratello,  il  granduca  di 
Toscana  nonché  numerosi  marchesi  e  marchese  provenienti  da  ogni 
luogo;  i  conti  non  facevano  quasi  testo.  Nel  settembre  del  1738, 
assieme  al  duca  di  Modena  Francesco  III,  furono  ospitati  cinque 
marchesi  dei  principali  casati  del  ducato;  i  Molza,  i  Rangoni... 
Un’occasione  ghiotta  per  un  possibile  anarchico  di  prendere  sei 
piccioni con una fava, ma non erano ancora tempi. Tra gli ospiti vi sono 
stati  importanti  funzionari  dello  Stato  pontificio;  inoltre,  cardinali, 
vescovi  e,  in  due  distinte  occasioni,  persino  un  papa:  Pio  VII.  Non  di 
rado alcuni visitatori si portavano appresso una piccola corte, a volte il 
letto e mobili personali, vettovaglie, gli argenti; un numero incredibile 
di persone di servizio, cuochi compresi. Le carrozze non erano poche, 
potevano essere fino a una decina, più gli animali da soma. Gli ospiti 
arrivavano  a  qualsiasi  ora,  specialmente  in  piena  notte,  preceduti  di 
qualche ora da una staffetta incaricata di allarmare tutti. I personaggi di 
spicco e il loro seguito scelto si fermavano a Casa Gottardi San Martini, 
ormai deputata al loro rango, tutti gli altri erano distribuiti, in rapporto 
al loro grado sociale, in case del circondario, di cui alcune di proprietà 
della medesima casa madre. Una ospitalità eletta a sistema.  Solo nella 
loro  prima  casa  non  veniva  ospitato  mai  nessuno.  I  proprietari 
manifestavano così la loro pervicacia nel non portarsi il lavoro a casa. Il 
22 aprile 1745 si presentò il duca di Modena Francesco III, questa volta 
alla  testa  di  quindicimila  soldati  dell’armata  galloispanica  diretti  in 
Garfagnana,  di  cui  era  stato  nominato  generalissimo  nella  guerra 
contro l’Austria. Imperturbabile, nonostante il trambusto di quei giorni 
(l’esercito  austriaco  non  era  molto  lontano),  fece  sistemare  le  truppe 
nelle piane di Pavullo, a cospetto delle paludi, e alloggiò con il solito 
seguito e i soliti agi presso i suoi generosi anfitrioni.
Tutta questa disponibilità a ospitare i potenti del tempo, in un tripudio 
di bauli e arredi, di sterco e piscio di cavallo, di tiri a sei ed a quattro, in 
un viavai di camerieri, cuochi, lacchè e cortigiani al seguito non aveva 
fini  di  lucro.  Diverse  annotazioni  sul  diario  lo  testimoniano:  ci  costò 
molto,  ma...  Di  tanto  in  tanto  qualcuno  fra  gli  ospiti  lasciava 
all’anfitrione  di  turno  un  dono:  un  orologio  d’oro  o  altri  oggetti  del 
genere.  Ma  prevalgono  su  tutti  gli  attestati  di  riconoscenza,  a  volte 
persino  in  forma  epigrafica,  con  i  quali,  è  noto,  non  si  mangia. 
Analizzando  la  lunga  storia  di  questa  singolare  famiglia,  traspare  una 
ipotesi  credibile:  la  casa­foresteria  permanente  era  un’arma,  certo  più 
efficace  di  quelle  lasciate  dai  Gottardi  San  Martini  nella  loro  secolare 
dimora abituale. Un’arma, né offensiva né di difesa, ma di convenienza: 
rivolta a ottenere via via crediti di riconoscenza, spendibili in incarichi 
amministrativi o, in ogni caso, di prestigio nell’ordinamento ducale per 
qualche  membro  della  famiglia,  secolo  dopo  secolo.  Una  sorta  di 
ospitopoli  ante  litteram  oliata  ed  efficiente.  Meglio  delle  lucenti 
sciabole riposte.


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