Salvatore Sofia
Fino al margine del foglio

Michele s'incammina sul foglio da poco apparecchiato sul tavolo della
sala da pranzo. L'ho appena mandato a cercare ossa per il mio racconto
e lui, da bimbo giudizioso, prende il suo compito in modo serio e
meticoloso. Si allontana a passo spedito col cestino che gli ho dato per
la raccolta e tornerà a breve – vedrete – con tutti i frammenti più utili
alla scrittura. Li disporremo sul tavolo e cominceremo insieme a
inventarci le storie più strampalate. Non serve un intero femore, né un
teschio integro, basta la vertebra di un coniglio o un qualsiasi osso di
provenienza ignota. Al limite anche l'ago di un istrice potrebbe andar
bene, non è esattamente un osso, ma sicuramente incuriosirebbe il
lettore.
È una ricerca che solo un'anima candida può compiere, per questo per
portarla a termine ho scelto un fanciullo che gioca coi sassi sull'aia. A
guardarlo bene però non è così piccolo Michele, avrà quattordici o
quindici anni, sembra piccolo, ma non lo si può certo considerare un
bambino. Infatti non trova nemmeno un ossicino di pollo o una lisca di
pesce e sta già rovinando l'atmosfera con la sua musica orrenda da
preadolescente sparata fuori dal cellulare che ha messo nel cestino
vuoto.
Non c'è l'ombra di un osso in questo racconto. Non c'è neanche lo
scheletro del racconto, sembra una larva stesa sul tavolo, inerme. Una
larva da un chilo e mezzo, umida e grassoccia. Michele scodinzola e la
annusa. Il cane che non ho mai avuto e che finalmente può
accompagnarmi per le prossime dieci righe, abituato com'è a riportare
l'osso, saprà certamente trovare qualcosa di interessante in questo
terreno vasto e brullo. Eccolo che scava già una buca dalla quale, ne
sono certo, tireremo fuori lo scheletro di un brontosauro o di un
capodoglio.
Invece torna indietro con un legnetto levigato dalle intemperie, mi
guarda coi suoi occhioni tristi e corre via da dov'è venuto, veloce come
il vento.
Non mi resta che chiamare il Genio militare coi suoi mezzi tecnici ­
escavatori, trivelle, frese – per gigioneggiare con lo stile. Comincio a
scrivere un racconto parlato, uno di quelli con la cantilena
mediopadana, zeppo di personaggi un po' bislacchi, un po' così, in
attesa che arrivi un fossile prezioso o almeno l'esoscheletro di una
chiocciola per imbastire il racconto che vorrei.
Però mi trovo con il guaio di personaggi che si chiamano tutti Michele.
È come avere dei doppioni di una figurina senza sapere con chi
scambiarli. Michele il ragazzino, Michele il cane, Michele anche la larva
– perché nel racconto che vorrei anch'essa avrebbe un nome. Michele
anche il bambino, che in realtà c'era, ma per la timidezza poi s'è
nascosto dietro al cugino. Michele, appunto. Michele l'istrice, che non
ha perso nemmeno un ago perché s'è mantenuto al bordo del campo.
“Non è così” mi dice Michele il cane. “No, il cane no! non può parlare il
cane” dice l'istrice, che però si rende conto dell'assurdità del suo dire.
Ho capito cosa intende: non si tratta di doppioni, ogni personaggio è
diverso e può prendere parte a suo modo alla ricerca. Però caro istrice,
cosa me ne faccio di un bimbo, di un ragazzino, di un cane e di un
istrice insieme. “Mettili a camminare...avanzate insieme in formazione.
Battete il campo in lungo e in largo, qualcosa verrà fuori. Dove c'è stata
vita animale ci saranno ossa. Non disperiamo!”
Accetto il consiglio. Tutti insieme ci incamminiamo verso l'ampio greto
del torrente, lasciandoci alla sinistra il pioppeto rigoglioso. “Magnifico!”
Adesso sul tavolo ci sono decine di frammenti ossei di diverse
dimensioni, pezzi che potrebbero comporre lo scheletro di una
creatura mitologica, ferina e antropomorfa. Ogni singolo osso
custodisce molte informazioni che un antropologo saprebbe
interpretare con qualche approssimazione, ma molta fantasia. Disposti
in file ordinate sembrano tracce, segni che contengono il retaggio di
altre vite. Un femore, una rotula, un dente. Linea punto punto e così
via, come messaggi in alfabeto Morse. I moderni strumenti diagnostici
ci darebbero informazioni più puntuali e apparentemente più
oggettive. Quanti anni aveva, in quale stato di salute versava, di cosa si
nutriva questa creatura?
Michele tiene in mano un lungo osso grigio e impolverato, l'ha trovato
al bordo della trazzera, al centro del secco torrente. Ci chiama
brandendolo e facendolo roteare. Lo lancia in aria una, due volte. Lo
aggancia col dorso del piede, lo stoppa e lo adagia al suolo. Lo tira su
con un rapido movimento, “venite a giocare”. Si avvita su se stesso e lo
calcia verso la porta del vecchio campo da calcio che se ne sta lì come
un relitto, come una colonna romana tra il deserto libico e il mare.
Vorrei dirgli che se rinunciamo a costruire lo scheletro del Ciclope o
del Centauro, dovremmo seppellirle quelle ossa, non giocarci. Ma
Michele abbaia e lo raggiunge, seguito da una nuvola di polvere e da
Michele, felice di poter finalmente giocare col cugino. Io, la larva e
l'istrice gli andiamo incontro col nostro passo strascicato, siamo i
vecchi della situazione. Arriviamo che la partita è in preda al caos. Si
deve battere un rigore e tra i due cugini Michele s'è acceso un
battibecco per stabilire chi debba calciarlo – io! No, io, tocca a me! No,
l'hanno fatto a me il fallo. Sì ma tu non sai tirarlo”.
Sarò troppo severo, ma questo piagnisteo non mi piace per niente e
poi eccita e spaventa i nostri amici animali.
“Lo batto io!”
Ho sempre avuto paura a tirare i calci di rigore, ma adesso tocca a me.
Il battibecco tra i Michele si placa, mi guardano in silenzio, si
avvicinano l'uno all'altro, per sostenere la tensione e per incoraggiarmi
insieme. Posiziono l'osso sulla zolla che ho scelto come dischetto.
Prendo una rincorsa che sembra una danza, colpisco la palla – perché
ormai per me è una palla – come se avessi messo il cuore dentro la
scarpa, carico il peso del corpo e do un effetto a giro che la fa schizzare
come un proiettile. Il portiere si tuffa dalla parte opposta mentre il
pallone viaggia sotto l'incrocio dei pali. Con quell'effetto di troppo che
lo manda proprio dove palo e traversa s'incontrano, con una forza tale
da farli tremare.
L'osso schizza in alto perpendicolare, sale e ruota. Possiamo vederlo al
rallentatore, ruotare e salire, salire e ruotare. Alziamo le braccia in alto
nel tentativo di accompagnarlo in porta con la forza del pensiero. Ma
niente, l'osso sale, sale, sale, fino al margine del foglio, finché nessuno
di noi riesce più minimamente a scorgerlo.
Fino al tempo in cui qualcuno leggerà della nostra specie.


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