Salvatore Sofia
La casa vuota
Alla scrivania del suo ufficio, in un angolo di open space in cui può
incontrare facilmente lo sguardo degli altri e facilmente fuggirlo,
vorrebbe accendere una sigaretta e stiracchiarsi mugolando. La luce
diretta della sua postazione spicca nel buio circostante: s’è fermata in
ufficio per riprendere in mano certi incartamenti interrotti. È tornata da
poco dal suo paese d’origine, in Sicilia: una settimana di ferie in cui ha
visto il mare fuori stagione, ha potuto passeggiare per strade senza
traffico, in cui pur stando sola non ha sentito la solitudine, e ha fatto
incontri dolci e sorprendenti.
Manuela si specchia nel vetro della sua scrivania. Ha i capelli rossi, un
ramato che ha scelto in un lunghissimo scaffale con molta
soddisfazione. La sua bellezza che ha fatto parecchie vittime nei primi
anni ’80 se ne sta quieta, diluita nelle forme un po’ rotonde, ma ancora
leggere, una bellezza appena più vigorosa nei sui occhi verdi intensi e
nel suo seno assolutamente procace.
Nel 1996 ha ufficialmente rinunciato al trucco, ora solo una linea sotto
gli occhi per evidenziare il colore dello sguardo; rifugge il copri occhiaie
come il seme del diavolo e la sua pelle ha un colorito naturalmente
gradevole, forse un po’ tendente al grasso.
Nel soggiorno in Sicilia è stata dalla sua vecchia amica Mariuccia,
constatando i bassissimi tariffari delle parrucchiere siciliane. “Andrei
tutte le settimane dalla parrucchiera, se anche su costasse così poco.”
Da otto mesi si è separata dal marito e da allora non l’ha più visto né
sentito.
Non ci sono figli da contendersi, nemmeno troppe proprietà da
spartire, i vestiti e gli oggetti vari sono già stati inscatolati e consegnati.
Lui aveva comunicato che sarebbe partito per un po’...Parto anche io!
Da 15 anni non tornava al paese. Un tempo lungo se vogliamo, in cui la
fisionomia di una persona cambia, in cui le abitudini si sclerotizzano, in
cui si può smettere di fumare e riprendere tante volte. Un tempo da
album di foto e di rimpianti ormai placati.
Ma al contempo un lasso limitato, uno scampolo in una vita lunga.
Era tornata al paese per vendere la casa della nonna, quella piccola casa
che veglia la piazza da un angolo discreto, dalla quale lei – ragazza –
s’era affacciata a spiare gli amici parlare, s’era fermata ad aspettare il
momento per incontrarli, s’era rifugiata dopo qualche litigio da
adolescente. Decenni fa.
Quella casa era stata come un satellite eternamente presente, intorno
alla sua vita, fino a quando non era partita per Torino per studiare
all’Università. E negli anni aveva pensato a quella casa di tre stanze
come a una luna lontana, ma sempre visibile. La casa della nonna, dove
coi suoi fratelli e tutta la famiglia aveva banchettato nei giorni di festa.
Apre la porta con difficoltà, la serratura cigola, la chiave gira a vuoto
nella toppa sgangherata. Due ultimi giri, uno scatto: la porta si apre
miagolando. Manuela viene accolta da un buio silenzioso che si fa
sentire senza dare scampo. Va subito ad aprire gli scuri della finestra per
avere un po’ di luce. Percorre quelle stanze, e le sembrano davvero
piccole, in dieci passi ha fatto tutto il giro della casa ed è tornata al
punto di partenza, accanto alla porta, per prendere le chiavi e chiuderla.
“Vediamo cosa c’è.” Nei prossimi giorni avrà un appuntamento con un
conoscente che fa l’agente immobiliare. “Chissà quanto vale!?” Poggia la
borsa su una sedia, lentamente inizia a scoprire alcuni mobili che se ne
stanno sotto bianche lenzuola.
Un tavolo, presumibilmente di castagno; il vecchio mobile del
televisore, con la radio collocata in basso; un divanetto di velluto
azzurro. Apre la finestra, per smuovere l’aria: non che puzzi, sembra
immobile. Mobili e oggetti coperti da bianche lenzuola, i vecchi
interruttori a scatto, coi fili a vista che corrono come cornici, le canne di
tramezzo che affiorano, in alto, dove il soffitto s’era sbrecciato – così
come si ricordava da sempre.
Ha iniziato con meticolosità a catalogare mobilie ed oggetti, per la
vendita. Ma ora si ritrova a scartabellare agende, album, cartelline,
ricettari, quadernini.
La prende come una euforia di scoperta. Si siede accanto a una
credenza che fa angolo e dallo sportello centrale estrae tutto un mondo
di vecchia carta. Sfoglia, e tra le sue mani questi fogli, questi fascicoletti,
prendono vita e iniziano a raccontare.
Arrivare all’obiettivo di solito è la sua priorità, il suo metodo. Quando si
trova davanti a incartamenti o fascicoli, un istinto di sopravvivenza
burocratica prende il sopravvento. Di solito.
Qui la polvere crea una patina compatta oltre cui è difficile leggere. O
meglio, le scritte si riescono a percepire, ma rimandano la mente ai dati
che concretamente rappresentano.
“Torta di Mele” legge su un quaderno a quadri con le Dolomiti in
copertina. Legge gli ingredienti, a mezza voce, e questo la riporta a
qualcosa che va oltre il preparare una torta, la fattualità degli ingredienti
– latte, farina, mezzo chilo di mele sbucciate etc. – è qualcosa che le
parla di chi quella torta l’ha fatta tante volte, sempre prima leggendo da
quel quaderno a quadri, che parla delle mani che hanno preso il
quaderno, sfogliato le pagine, e poi impastato, infornato, portato in
tavola, con un leggero applauso, un battito di richiamo.
Si guarda intorno, pensa sia inutile mettersi a pulire, tanto a breve la
casa sarà venduta. La polvere ha conservato, fossilizzato, reso eterno.
È un peccato smuovere questo paradiso della memoria. Ci vogliono
mani delicate, o bambinesca sfacciataggine.
Continua a sfogliare, le foto di 60 anni di famiglia, i fratelli di sua nonna
al fronte, foto di vendemmia con le donne in fazzoletto e il padre di sua
nonna – nonno Petru sorridente in mezzo al gruppo, foto sparse che
sicuramente lei stessa o suo fratello avevano molti anni prima messo in
disordine...in una specie di voglia morbosa di mischiare le carte, di
avvicinare le epoche.
Da piccola avrebbe voluto incontrare il fratellino di sua nonna, morto a
4 anni, così pensava che mischiando le foto potesse succedere un
incantesimo, che le piccole figure di luce su cartoncino potessero
favorire un incontro impossibile.
Adesso invece le epoche vorrebbe differenziarle, vorrebbe fare una
cronologia esatta dalla foto più antica fino alla più recente. Qualche foto
a colori l’aiuta, così inizia a distribuirle sul tavolo a fianco, cercando di
raggrupparle.
Ha voglia di fumare, prende una sigaretta, ma non trova l’accendino.
“È nel sottoscala”, sembra di sentire una voce. “È nel sottoscala...in
cucina.” O forse è un ricordo che affiora. Continua a cercare tra gli
stipetti della cucina. “È nel sottoscala.” Ma non trova nemmeno l’ombra
di un fiammifero, di un accendino, di un accendigas. Si arrende e torna
verso le sue foto, fumerà dopo. “È nel sottoscala la scatola di
fiammiferi.” Si arresta sulla porta e torna indietro verso il sottoscala, il
ripostiglio creato sotto le scale dell’appartamento dei Russo che confina
con la casa della nonna. Apre la grande anta di legno pittata di bianco e
su uno scaffale, in bilico, vede proprio una scatola di fiammiferi.
“Guarda te” pensa.
“Io lo sapevo che pipiavi.”
“Nonna!”
“Io lo sapevo che pipiavi.”
Vorrebbe abbracciarla forte forte. “Nonna, non dire pipiavi, sembra che
tirassi cocaina.”
“Cosa?”
“Niente nonna lascia stare...Cosa ci fai qui?”
“Questa è casa mia! Ma lo sai che c’ho messo un po’ prima di
riconoscerti?”
“Ma come nonna, sono Manuela, tua nipote, come fai a scordarti?”
“Sei cambiata assai, Gesu Gesu. Ma assai, assai.”
Manuela sfrega un fiammifero, come per smuovere l’incredulità che l’ha
presa.
Sua nonna lì, visibile, e poi con una chiacchiera...
Il fiammifero fa cilecca, il primo, il secondo: l’umidità di 15 anni lì ha
resi inutilizzabili.
Sfrega e sfrega e sfrega. Un fiammifero s’accende e illumina volti e
sguardi.
“Scusa nonna, ma devo proprio fumare...che sorpresa!” Torna nella
piccola saletta da pranzo, si siede accanto alle foto che stava ordinando.
“Quante volte te l’avevo detto di sistemarmele nell’album che mi
avevano regalato per il compleanno...”
“È vero nonna, sono una testona!”
“Ma u sai che quannu mi pensi mi mangia u nasu? ma non è che
succede o spissu...” 1
“Noo, ti penso molte volte. Nei discorsi vieni sempre fuori. Quanti
ricordi...”
“Eh, ma questa casa è sempre chiusa” la nonna non s’accontenta delle
rassicurazioni “vedi i lenzuoli sui mobili, e che polvere! non ci venite da
vent’anni.”
“Ma no nonna, che dici...” vorrebbe dirle che non viene da 15 anni, ma
non le sembra che migliorerebbe qualcosa.
“Nonna, ma lo sai che...” non sa se continuare, non vorrebbe ferirla, o
peggio farla sparire.
“Che c’è a nunnuzza?”
Manuela prende una gran boccata di fumo, per darsi coraggio, soffia di
lato cercando di non colpire la nonna che adesso s’è seduta di fronte a
lei sul divanetto, con le mani sulle gambe come quando guardava i
varietà del sabato sera, come se fosse a teatro in attesa. “Ma...lo sai...
che sei morta...”
“Ma che discorsi fai?” scoppia in una gran risata, come quelle che faceva
quando guardava Franco e Ciccio, “Che mi fai scema?” e ride, ride “mi
fai fare la pipì addosso dalle risate.”
“Apro meglio la finestra, sai il fumo...”
“Eh, il fumo certo” dice la nonna mutando tono, facendosi un po’ più
seria ma sempre con un sorriso bonario. “Ti ho detto che lo sapevo che
fumavi. Tu masticavi ciccagomme, ti spruzzavi il profumo, ma la puzza si
sentiva lo stesso, nei capelli. Ah che belli capelli lunghi che avevi!” La
guarda meglio, “che hai fatto? Eh ora sei proprio donna, te li sei tagliati.”
Manuela si passa la mano tra i capelli; poi tra le foto ne cerca una di lei
adolescente. Eccola, coi suoi lunghi capelli al matrimonio di un cugino.
La gira: 16 ottobre 1980 c’è scritto a matita. È la grafia della nonna.
“Erano degli spaghetti” dice Manuela, ma intanto si compiace per
com’era bella in quella foto.
“Nonna, ma tu le sapresti mettere in ordine queste fotografie?”
“Certo, io me le guardavo sempre quando voi non c’eravate, le so a
memoria.”
“Se vuoi le possiamo mettere nell’album.” Manuela va a spegnere la
sigaretta nel posacenere di vetro a forma di foglia, quello che la nonna
portava per gli ospiti.
Cominciano a sistemare le foto, sedute al tavolo tondo della sala da
pranzo. L’una accanto all’altra.
Guarda una foto: il sapore della caponata coi capperi. Un’altra foto: il
biancomangiare. Un’altra: la sensazione dei piedi su quelle mattonelle a
scacchi rossi e color sabbia che solo adesso torna a vedere. Un’altra:
uova fresche da battere e montare con la forchetta, un goccio di
marsala.
I ricordi che quando era entrata in casa se n’erano rimasti accucciati
negli angoli, o sotto le lenzuola, ora vengono fuori uno dietro l’altro. E
non c’è bisogno di parole. La nonna sistema le foto, mette questa prima
di quest’altra, con sicurezza.
“Ma perché sei venuta in questa casetta...” il silenzio s’interrompe con
una domanda secca “...dopo tanti anni?”
Manuela non ha voglia di parlare di sé, di parlare della sua vita, del
presente. Vorrebbe dire, nonna sono sposata sono felice, tanti
bambini... Ma bambini niente, matrimonio quasi finito, felicità
nemmeno a parlarne. Così preferirebbe parlare delle foto, degli episodi
che le ricordano, fare domande su qualche persona che non riconosce,
continuare a metterle in ordine cronologico.
“Sai nonna” decide di essere sincera, “sono venuta qui per vendere la
casa.” Chiude leggermente gli occhi, per la paura di veder sparire la
figura di sua nonna.
“Eh lo so, lo so. La casetta è piccola, non ha molti comodi, si devono
spendere solo soldi per mantenerla”, con tutta l’indulgenza che è
riuscita a trovare, la nonna ha scusato ancora la sua nipotina.
“Voi siete fuori, lontani, lavorate, non potete venire qua a badare alla
casa... ma ora dove sei?”
“Sto in provincia di Milano.”
“Miscula” esclama “luntau ti ni jisti” 2
“Eh si, domani devo far venire un agente immobiliare”, la nonna la
guarda interdetta “Peppi i zi Vicenza”, il dialetto le risuona in bocca
dando colore alla sua voce “per stimare la casa, la valuta e dà un prezzo
per la vendita.”
“Ah... certo, è un po’ piccola... ma almeno vi può servire per avere
qualche soldino... sono contenta lo stesso...”
Ma la nonna non ha la faccia di una contenta lo stesso, anche se il
pensiero di essere utile in quel modo estremo un po’ scaccia la tristezza
dell’abbandono assoluto.
Dalla finestra dell’altra stanza, quella che dà sulla piazza, un tramonto
sfacciato manda in casa luce rossa. Lei teme la bellezza, questo le sta
dicendo il tramonto, mentre sua nonna le rammenta che la prossima
volta che vorrà cercare un rifugio nel suo passato non avrà più una casa.
Ma lo dice col sorriso.
I patrimoni vengono venduti e così continua una migrazione che è di
menti e di emozioni, prima che essere di capitali.
Non esiste il ritorno.
“Nonna, non esiste il ritorno? L’anima muore quando tutti se ne vanno?
Io non posso rivederti che qua, tra queste mura?”
“Piccola mia, il ritorno non c’è.”
“Nonna, io da morta dove sarò? Dove sarò?”
“Nonna nonnina la notte s’avvicina”.
Manuela si sveglia, appena un attimo per tirar via il lenzuolo che copre
la poltrona e coprircisi, istintivamente, senza pensare che la polvere l’ha
mangiato.
La nonna continua a parlarle. Di come aveva tirato su da sola suo figlio
Carmelo, il padre di Manuela, con l’aiuto dei suoi genitori sì, ma senza
un uomo che per suo figlio fosse padre. Era il 1938, non il periodo
migliore per essere sola con un figlio da far crescere.
“Nonna, ma il nonno è morto in guerra?”
Da anni ormai Manuela sapeva la storia del suo nonno naturale, quello
che se n’era andato, quello che era “morto in guerra”. L’aveva
conosciuta da grande questa storia.
Il nonno non era morto in guerra, ma aveva lasciato la nonna prima che
il figlio venisse al mondo. In guerra c’era stato, sì, e quello aveva ancora
di più confuso le carte e allontanato le responsabilità, ma già prima
dello scoppio da mesi s’era dato alla macchia ed era andato via dal
paese.
Manuela e suo fratello Angelo, da piccoli, cercavano tra le fotografie
quella del nonno. “Ma qual è il nonno?”, chiedevano sempre. “È morto
in guerra” diceva loro la nonna, “poverino...” dicevano loro “ma non
c’è una foto?”
A ripensarci ora, Manuela è sicura che una volta – ma solo quella volta –
la nonna per farli tacere indicò una figura un po’ in disparte in una
grande foto.
“Ma questa non è una foto dello zio Valentino con i suoi amici in
balera?”
La nonna s’era un po’ sbagliata. Manuela ripesca quella fotografia, era
capodanno, in un capannone dove si ballava, sullo sfondo una grande
scritta: 1955.
Il nonno si chiamava Vittorio. Aveva vissuto ad Albissola con una nuova
famiglia, o qualcosa del genere, a servizio di un proprietario terriero che
negli anni era stato anche senatore. Così lei aveva appreso che suo
nonno non era morto in guerra: “Quello è il padrone dove lavora tuo
nonno” aveva detto con un po’ di orgoglio un vicino di casa a suo
fratello Angelo, mentre alla Tribuna Politica parlava quel senatore.
“Il nonno è scomparso in guerra” dice la nonna.
Manuela è tornata bambina adesso, in questa casa, con queste
fotografie, non chiede oltre.
In questa casa di tre stanze dove tutto era davvero a portata di mano,
era tutto così prossimo, anche la felicità sembrava qualcosa che si
potesse afferrare, nel sottoscala tra le scope e gli stracci, come un
utensile, come le cipolle per fare il soffritto.
“Lunedì quando torni a lavoro” dice la nonna “non avrai più tempo per
niente. Sempre curri e scappa, scappa e curri... Lunedì diventa martedì
e poi mercoledì e le settimane si currijo 3 accumulando i giorni di un
mese, due mesi. Lunedì torni a lavoro.”
“Nonnuzza, ma tu che ne sai del mio lavoro?” si meraviglia Manuela.
“È una ditta che si occupa di marketing” dice la nonna “no?
Pianificazioni commerciali. Tu sei nel settore amministrazione e
pianificazione commerciale, area sviluppo marketing analitico.”
“...Nonna ma come le sai tutte queste cose?”
“Ogni tanto preghi, e allora io nelle tue preghiere ascolto, sento quello
che mi vuoi dire.”
“Ah, ma allora sei vicina a Dio... che bello nonna!”
Quando era bambina, era stata la nonna a insegnarle le prime preghiere.
“Quanti petri nta sta casa
quanti Angiuri ci ntraso
ci ‘ntrasi Petru
ci ‘ntrasi Giuvanni
ci ‘ntrasi u nostru Diu
ch’è lu chiù granni
Sant’Anna è me nonna
San Jachinu è me nonnu
L’Angiurelli so fradi e soru
U Bambiuzzu è me cusginu
Ora chi ajiu st’amiggi fidiri
Mi fazzu la cruggi e mi mettu a durmiri” 4
“Brava, te la ricordi ancora! Ma allora non sei vecchia come sembri.” La
nonna non ha perso la sua ironia che aveva spesso urtato Manuela
nell’adolescenza. Eh sì, perché la nonna non aveva peli sulla lingua e
con dolcezza diceva sempre tutto quello che le passava nel cuore. Che
spesso era quello che gli altri non volevano sentirsi dire.
Una vecchia, seduta sul comò, le sta dando della vecchia: Manuela è un
po’ contrariata. Ma continua a sonnecchiare, per paura che la visione
svanisca negli strati di polvere decennale, o nei vecchi mobili.
Forse non avrà tempo per cercare di avvicinare quello che più le sta a
cuore. Magari fra un mese si ritroverà a pensare che la nonna aveva
ragione...
Il silenzio è denso e avvolgente come una coltre di lana. Sospira, di
fronte a lei c’è l’angolo di casa in cui per la prima volta il suo clitoride
ha incontrato i polpastrelli di un ragazzo poi per settimane non era più
andata a trovare la nonna, per la paura di essere scoperta dall’arrossire
delle sue guance e dal batticuore quell’angolo lontano da ogni finestra,
protettivo e scuro come un tempo.
La nonna era all’ospedale, s’era tolta i calcoli alla cistifellea. Lei andava
nelle sere d’estate a dar l’acqua ai suoi gerani rossi e alle ortensie lilla
che fiorivano sul balcone. Una sera si fece accompagnare da Michele. Un
bacio tira l’altro, un abbraccio più lungo, il silenzio della casa...
Dalle fessure delle palpebre guarda la nonna per capire se lei
s’immagina qualcosa. Forse ha cambiato stanza. La nonna non c’è. Si
sveglia movendosi lentamente. È nel letto della nonna, nella sua stanza,
come quand’era piccola, con le coperte rimboccate sotto il mento per
non prendere freddo.
“Nonna” chiama “Nonna”
Si siede sul letto, senza scoprirsi. Tossisce un po’, quelle coperte di lana
sono intrise di polvere.
“Noonna” dice quasi cantilenando.
Nella sala da pranzo l’album è aperto su una foto della nonna che tiene
per mano lei e suo fratello: primi anni ’70. Ne sfoglia le pagine, tutte le
foto al loro posto. Sul tavolo alcuni mucchietti di fotografie avanzate; le
prende, sembrano in ordine cronologico, i vecchi bianco e nero, le
prime a colori, qualche polaroid.
“Tornerò per Natale” pensa “vediamo se fino ad allora ne avrò ancora
bisogno”, ma sotto la pelle di quel pensiero ce n’è un altro, sorridente
“chissà se tornerà a farsi vedere la nonna?” Lo spera come una bambina
che attenda una favola.
Seduta sull’armadio della sua stanza la nonna sorride anche lei, ma
senza farsi vedere “a me Michele mi piaceva per te, perché non te lo sei
preso?”, ma questo Manuela non può sentirlo.
Ha già chiuso la porta, cinque mandate, e via.
Ciao paese, non so bene come ci rivedremo.
La nonna, al balcone, guarda l’auto ormai lontana tra le curve: a volte
dimenticare è necessario per vivere, ricordare per non morire.
1 Ma lo sai che quando mi pensi mi prude il naso, ma non è che capiti spesso...
2 “Caspita... lontano te ne sei andata”
3 rincorrono
4 “Quante pietre in questa casa/ quanti Angeli ci entrano/ ci entra Pietro/ ci entra Giovanni/
ci entra Dio nostro che è il più grande/ Sant’Anna è mia nonna/ San Gioacchino è mio
nonno/ gli Angioletti sono fratelli e sorelle/ il Bambinello è mio cugino/ ora che ho questi
amici fedeli/ mi faccio la Croce e mi metto a dormire”