Salvatore Sofia
La casa vuota


Alla  scrivania  del  suo  ufficio,  in  un  angolo  di  open  space  in  cui  può 
incontrare  facilmente  lo  sguardo  degli  altri  e  facilmente  fuggirlo, 
vorrebbe  accendere  una  sigaretta  e  stiracchiarsi  mugolando.  La  luce 
diretta  della  sua  postazione  spicca  nel  buio  circostante:  s’è  fermata  in 
ufficio per riprendere in mano certi incartamenti interrotti. È tornata da 
poco dal suo paese d’origine, in Sicilia: una settimana di ferie in cui ha 
visto  il  mare  fuori  stagione,  ha  potuto  passeggiare  per  strade  senza 
traffico,  in  cui  pur  stando  sola  non  ha  sentito  la  solitudine,  e  ha  fatto 
incontri dolci e sorprendenti.
Manuela si specchia nel vetro della sua scrivania. Ha i capelli rossi, un 
ramato  che  ha  scelto  in  un  lunghissimo  scaffale  con  molta 
soddisfazione.  La  sua  bellezza  che  ha  fatto  parecchie  vittime  nei  primi 
anni ’80 se ne sta quieta, diluita nelle forme un po’ rotonde, ma ancora 
leggere, una bellezza appena più vigorosa nei sui occhi verdi intensi e 
nel suo seno assolutamente procace. 
Nel 1996 ha ufficialmente rinunciato al trucco, ora solo una linea sotto 
gli occhi per evidenziare il colore dello sguardo; rifugge il copri occhiaie 
come  il  seme  del  diavolo  e  la  sua  pelle  ha  un  colorito  naturalmente 
gradevole, forse un po’ tendente al grasso.
Nel  soggiorno  in  Sicilia  è  stata  dalla  sua  vecchia  amica  Mariuccia, 
constatando  i  bassissimi  tariffari  delle  parrucchiere  siciliane.  “Andrei 
tutte le settimane dalla parrucchiera, se anche su costasse così poco.”
Da otto mesi si è separata dal marito e da allora non l’ha più visto né 
sentito.
Non  ci  sono  figli  da  contendersi,  nemmeno  troppe  proprietà  da 
spartire, i vestiti e gli oggetti vari sono già stati inscatolati e consegnati.
Lui aveva comunicato che sarebbe partito per un po’...Parto anche io!
Da 15 anni non tornava al paese. Un tempo lungo se vogliamo, in cui la 
fisionomia di una persona cambia, in cui le abitudini si sclerotizzano, in 
cui  si  può  smettere  di  fumare  e  riprendere  tante  volte.  Un  tempo  da 
album di foto e di rimpianti ormai placati.
Ma al contempo un lasso limitato, uno scampolo in una vita lunga.
Era tornata al paese per vendere la casa della nonna, quella piccola casa 
che  veglia  la  piazza  da  un  angolo  discreto,  dalla  quale  lei  –  ragazza  – 
s’era  affacciata  a  spiare  gli  amici  parlare,  s’era  fermata  ad  aspettare  il 
momento  per  incontrarli,  s’era  rifugiata  dopo  qualche  litigio  da 
adolescente. Decenni fa.
Quella  casa  era  stata  come  un  satellite  eternamente  presente,  intorno 
alla  sua  vita,  fino  a  quando  non  era  partita  per  Torino  per  studiare 
all’Università.  E  negli  anni  aveva  pensato  a  quella  casa  di  tre  stanze 
come a una luna lontana, ma sempre visibile. La casa della nonna, dove 
coi suoi fratelli e tutta la famiglia aveva banchettato nei giorni di festa.
Apre  la  porta  con  difficoltà,  la  serratura  cigola,  la  chiave  gira  a  vuoto 
nella  toppa  sgangherata.  Due  ultimi  giri,  uno  scatto:  la  porta  si  apre 
miagolando.  Manuela  viene  accolta  da  un  buio  silenzioso  che  si  fa 
sentire senza dare scampo. Va subito ad aprire gli scuri della finestra per 
avere  un  po’  di  luce.  Percorre  quelle  stanze,  e  le  sembrano  davvero 
piccole,  in  dieci  passi  ha  fatto  tutto  il  giro  della  casa  ed  è  tornata  al 
punto di partenza, accanto alla porta, per prendere le chiavi e chiuderla. 
“Vediamo cosa c’è.” Nei prossimi giorni avrà un appuntamento con un 
conoscente che fa l’agente immobiliare. “Chissà quanto vale!?” Poggia la 
borsa su una sedia, lentamente inizia a scoprire alcuni mobili che se ne 
stanno sotto bianche lenzuola. 
Un  tavolo,  presumibilmente  di  castagno;  il  vecchio  mobile  del 
televisore,  con  la  radio  collocata  in  basso;  un  divanetto  di  velluto 
azzurro.  Apre  la  finestra,  per  smuovere  l’aria:  non  che  puzzi,  sembra 
immobile.  Mobili  e  oggetti  coperti  da  bianche  lenzuola,  i  vecchi 
interruttori a scatto, coi fili a vista che corrono come cornici, le canne di 
tramezzo  che  affiorano,  in  alto,  dove  il  soffitto  s’era  sbrecciato  –  così 
come si ricordava da sempre. 
Ha  iniziato  con  meticolosità  a  catalogare  mobilie  ed  oggetti,  per  la 
vendita.  Ma  ora  si  ritrova  a  scartabellare  agende,  album,  cartelline, 
ricettari, quadernini. 
La  prende  come  una  euforia  di  scoperta.  Si  siede  accanto  a  una 
credenza che fa angolo e dallo sportello centrale estrae tutto un mondo 
di vecchia carta. Sfoglia, e tra le sue mani questi fogli, questi fascicoletti, 
prendono vita e iniziano a raccontare.
Arrivare all’obiettivo di solito è la sua priorità, il suo metodo. Quando si 
trova  davanti  a  incartamenti  o  fascicoli,  un  istinto  di  sopravvivenza 
burocratica prende il sopravvento. Di solito.
Qui la polvere crea una patina compatta oltre cui è difficile leggere. O 
meglio, le scritte si riescono a percepire, ma rimandano la mente ai dati 
che concretamente rappresentano.
“Torta  di  Mele”  legge  su  un  quaderno  a  quadri  con  le  Dolomiti  in 
copertina.  Legge  gli  ingredienti,  a  mezza  voce,  e  questo  la  riporta  a 
qualcosa che va oltre il preparare una torta, la fattualità degli ingredienti 
–  latte,  farina,  mezzo  chilo  di  mele  sbucciate  etc.  –  è  qualcosa  che  le 
parla di chi quella torta l’ha fatta tante volte, sempre prima leggendo da 
quel  quaderno  a  quadri,  che  parla  delle  mani  che  hanno  preso  il 
quaderno,  sfogliato  le  pagine,  e  poi  impastato,  infornato,  portato  in 
tavola, con un leggero applauso, un battito di richiamo.
Si  guarda  intorno,  pensa  sia  inutile  mettersi  a  pulire,  tanto  a  breve  la 
casa sarà venduta. La polvere ha conservato, fossilizzato, reso eterno.
È  un  peccato  smuovere  questo  paradiso  della  memoria.  Ci  vogliono 
mani delicate, o bambinesca sfacciataggine.
Continua a sfogliare, le foto di 60 anni di famiglia, i fratelli di sua nonna 
al fronte, foto di vendemmia con le donne in fazzoletto e il padre di sua 
nonna – nonno Petru ­ sorridente in mezzo al gruppo, foto sparse che 
sicuramente lei stessa o suo fratello avevano molti anni prima messo in 
disordine...in  una  specie  di  voglia  morbosa  di  mischiare  le  carte,  di 
avvicinare le epoche.
Da piccola avrebbe voluto incontrare il fratellino di sua nonna, morto a 
4  anni,  così  pensava  che  mischiando  le  foto  potesse  succedere  un 
incantesimo,  che  le  piccole  figure  di  luce  su  cartoncino  potessero 
favorire un incontro impossibile.
Adesso  invece  le  epoche  vorrebbe  differenziarle,  vorrebbe  fare  una 
cronologia esatta dalla foto più antica fino alla più recente. Qualche foto 
a colori l’aiuta, così inizia a distribuirle sul tavolo a fianco, cercando di 
raggrupparle.
Ha voglia di fumare, prende una sigaretta, ma non trova l’accendino.
“È  nel  sottoscala”,  sembra  di  sentire  una  voce.  “È  nel  sottoscala...in 
cucina.”  O  forse  è  un  ricordo  che  affiora.  Continua  a  cercare  tra  gli 
stipetti della cucina. “È nel sottoscala.” Ma non trova nemmeno l’ombra 
di un fiammifero, di un accendino, di un accendigas. Si arrende e torna 
verso  le  sue  foto,  fumerà  dopo.  “È  nel  sottoscala  la  scatola  di 
fiammiferi.” Si arresta sulla porta e torna indietro verso il sottoscala, il 
ripostiglio creato sotto le scale dell’appartamento dei Russo che confina 
con la casa della nonna. Apre la grande anta di legno pittata di bianco e 
su  uno  scaffale,  in  bilico,  vede  proprio  una  scatola  di  fiammiferi. 
“Guarda te” pensa.
“Io lo sapevo che pipiavi.”
“Nonna!”
“Io lo sapevo che pipiavi.”
Vorrebbe abbracciarla forte forte. “Nonna, non dire pipiavi, sembra che 
tirassi cocaina.”
“Cosa?”
“Niente nonna lascia stare...Cosa ci fai qui?”
“Questa  è  casa  mia!  Ma  lo  sai  che  c’ho  messo  un  po’  prima  di 
riconoscerti?”
“Ma come nonna, sono Manuela, tua nipote, come fai a scordarti?”
“Sei cambiata assai, Gesu Gesu. Ma assai, assai.”
Manuela sfrega un fiammifero, come per smuovere l’incredulità che l’ha 
presa.
Sua nonna lì, visibile, e poi con una chiacchiera...
Il fiammifero fa cilecca, il primo, il secondo: l’umidità di 15 anni lì ha 
resi inutilizzabili.
Sfrega  e  sfrega  e  sfrega.  Un  fiammifero  s’accende  e  illumina  volti  e 
sguardi.
“Scusa  nonna,  ma  devo  proprio  fumare...che  sorpresa!”  Torna  nella 
piccola saletta da pranzo, si siede accanto alle foto che stava ordinando.
“Quante  volte  te  l’avevo  detto  di  sistemarmele  nell’album  che  mi 
avevano regalato per il compleanno...”
“È vero nonna, sono una testona!”
“Ma  u  sai  che  quannu  mi  pensi  mi  mangia  u  nasu?  ma  non  è  che 
succede o spissu...” 1
“Noo,  ti  penso  molte  volte.  Nei  discorsi  vieni  sempre  fuori.  Quanti 
ricordi...”
“Eh, ma questa casa è sempre chiusa” la nonna non s’accontenta delle 
rassicurazioni “vedi i lenzuoli sui mobili, e che polvere! non ci venite da 
vent’anni.”
“Ma no nonna, che dici...” vorrebbe dirle che non viene da 15 anni, ma 
non le sembra che migliorerebbe qualcosa.
“Nonna, ma lo sai che...” non sa se continuare, non vorrebbe ferirla, o 
peggio farla sparire.
“Che c’è a nunnuzza?”
Manuela prende una gran boccata di fumo, per darsi coraggio, soffia di 
lato cercando di non colpire la nonna che adesso s’è seduta di fronte a 
lei  sul  divanetto,  con  le  mani  sulle  gambe  come  quando  guardava  i 
varietà del sabato sera, come se fosse a teatro in attesa. “Ma...lo sai...
che sei morta...”
“Ma che discorsi fai?” scoppia in una gran risata, come quelle che faceva 
quando guardava Franco e Ciccio, “Che mi fai scema?” e ride, ride “mi 
fai fare la pipì addosso dalle risate.”
“Apro meglio la finestra, sai il fumo...”
“Eh, il fumo certo” dice la nonna mutando tono, facendosi un po’ più 
seria ma sempre con un sorriso bonario. “Ti ho detto che lo sapevo che 
fumavi. Tu masticavi ciccagomme, ti spruzzavi il profumo, ma la puzza si 
sentiva  lo  stesso,  nei  capelli.  Ah  che  belli  capelli  lunghi  che  avevi!”  La 
guarda meglio, “che hai fatto? Eh ora sei proprio donna, te li sei tagliati.”
Manuela si passa la mano tra i capelli; poi tra le foto ne cerca una di lei 
adolescente. Eccola, coi suoi lunghi capelli al matrimonio di un cugino. 
La  gira:  16  ottobre  1980  c’è  scritto  a  matita.  È  la  grafia  della  nonna. 
“Erano  degli  spaghetti”  dice  Manuela,  ma  intanto  si  compiace  per 
com’era bella in quella foto.
“Nonna, ma tu le sapresti mettere in ordine queste fotografie?”
“Certo,  io  me  le  guardavo  sempre  quando  voi  non  c’eravate,  le  so  a 
memoria.”
“Se  vuoi  le  possiamo  mettere  nell’album.”  Manuela  va  a  spegnere  la 
sigaretta nel posacenere di vetro a forma di foglia, quello che la nonna 
portava per gli ospiti. 
Cominciano  a  sistemare  le  foto,  sedute  al  tavolo  tondo  della  sala  da 
pranzo. L’una accanto all’altra. 
Guarda una foto: il sapore della caponata coi capperi. Un’altra foto: il 
biancomangiare. Un’altra: la sensazione dei piedi su quelle mattonelle a 
scacchi  rossi  e  color  sabbia  che  solo  adesso  torna  a  vedere.  Un’altra: 
uova  fresche  da  battere  e  montare  con  la  forchetta,  un  goccio  di 
marsala.
I  ricordi  che  quando  era  entrata  in  casa  se  n’erano  rimasti  accucciati 
negli angoli, o sotto le lenzuola, ora vengono fuori uno dietro l’altro. E 
non c’è bisogno di parole. La nonna sistema le foto, mette questa prima 
di quest’altra, con sicurezza.
“Ma perché sei venuta in questa casetta...” il silenzio s’interrompe con 
una domanda secca “...dopo tanti anni?”
Manuela  non  ha  voglia  di  parlare  di  sé,  di  parlare  della  sua  vita,  del 
presente.  Vorrebbe  dire,  nonna  sono  sposata  sono  felice,  tanti 
bambini...  Ma  bambini  niente,  matrimonio  quasi  finito,  felicità 
nemmeno a parlarne. Così preferirebbe parlare delle foto, degli episodi 
che le ricordano, fare domande su qualche persona che non riconosce, 
continuare a metterle in ordine cronologico.
“Sai  nonna”  decide  di  essere  sincera,  “sono  venuta  qui  per  vendere  la 
casa.”  Chiude  leggermente  gli  occhi,  per  la  paura  di  veder  sparire  la 
figura di sua nonna.
“Eh lo so, lo so. La casetta è piccola, non ha molti comodi, si devono 
spendere  solo  soldi  per  mantenerla”,  con  tutta  l’indulgenza  che  è 
riuscita a trovare, la nonna ha scusato ancora la sua nipotina.
“Voi  siete  fuori,  lontani,  lavorate,  non  potete  venire  qua  a  badare  alla 
casa... ma ora dove sei?”
“Sto in provincia di Milano.”
“Miscula” esclama “luntau ti ni jisti” 2
“Eh  si,  domani  devo  far  venire  un  agente  immobiliare”,  la  nonna  la 
guarda  interdetta  “Peppi  i  zi  Vicenza”,  il  dialetto  le  risuona  in  bocca 
dando colore alla sua voce “per stimare la casa, la valuta e dà un prezzo 
per la vendita.”
“Ah...  certo,  è  un  po’  piccola...  ma  almeno  vi  può  servire  per  avere 
qualche soldino... sono contenta lo stesso...”
Ma  la  nonna  non  ha  la  faccia  di  una  contenta  lo  stesso,  anche  se  il 
pensiero di essere utile in quel modo estremo un po’ scaccia la tristezza 
dell’abbandono assoluto.
Dalla finestra dell’altra stanza, quella che dà sulla piazza, un tramonto 
sfacciato  manda  in  casa  luce  rossa.  Lei  teme  la  bellezza,  questo  le  sta 
dicendo  il  tramonto,  mentre  sua  nonna  le  rammenta  che  la  prossima 
volta che vorrà cercare un rifugio nel suo passato non avrà più una casa. 
Ma lo dice col sorriso.
I  patrimoni  vengono  venduti  e  così  continua  una  migrazione  che  è  di 
menti e di emozioni, prima che essere di capitali.
Non esiste il ritorno.
“Nonna, non esiste il ritorno? L’anima muore quando tutti se ne vanno? 
Io non posso rivederti che qua, tra queste mura?”
“Piccola mia, il ritorno non c’è.”
“Nonna, io da morta dove sarò? Dove sarò?”
“Nonna nonnina la notte s’avvicina”.
Manuela si sveglia, appena un attimo per tirar via il lenzuolo che copre 
la poltrona e coprircisi, istintivamente, senza pensare che la polvere l’ha 
mangiato.
La nonna continua a parlarle. Di come aveva tirato su da sola suo figlio 
Carmelo, il padre di Manuela, con l’aiuto dei suoi genitori sì, ma senza 
un  uomo  che  per  suo  figlio  fosse  padre.  Era  il  1938,  non  il  periodo 
migliore per essere sola con un figlio da far crescere.
“Nonna, ma il nonno è morto in guerra?”
Da anni ormai Manuela sapeva la storia del suo nonno naturale, quello 
che  se  n’era  andato,  quello  che  era  “morto  in  guerra”.  L’aveva 
conosciuta da grande questa storia.
Il nonno non era morto in guerra, ma aveva lasciato la nonna prima che 
il figlio venisse al mondo. In guerra c’era stato, sì, e quello aveva ancora 
di  più  confuso  le  carte  e  allontanato  le  responsabilità,  ma  già  prima 
dello  scoppio  da  mesi  s’era  dato  alla  macchia  ed  era  andato  via  dal 
paese.
Manuela  e  suo  fratello  Angelo,  da  piccoli,  cercavano  tra  le  fotografie 
quella del nonno. “Ma qual è il nonno?”, chiedevano sempre. “È morto 
in  guerra”  diceva  loro  la  nonna,  “poverino...”  dicevano  loro  “ma  non 
c’è una foto?”
A ripensarci ora, Manuela è sicura che una volta – ma solo quella volta – 
la  nonna  per  farli  tacere  indicò  una  figura  un  po’  in  disparte  in  una 
grande foto.
“Ma  questa  non  è  una  foto  dello  zio  Valentino  con  i  suoi  amici  in 
balera?”
La  nonna  s’era  un  po’  sbagliata.  Manuela  ripesca  quella  fotografia,  era 
capodanno, in un capannone dove si ballava, sullo sfondo una grande 
scritta: 1955.
Il nonno si chiamava Vittorio. Aveva vissuto ad Albissola con una nuova 
famiglia, o qualcosa del genere, a servizio di un proprietario terriero che 
negli  anni  era  stato  anche  senatore.  Così  lei  aveva  appreso  che  suo 
nonno non era morto in guerra: “Quello è il padrone dove lavora tuo 
nonno”  aveva  detto  con  un  po’  di  orgoglio  un  vicino  di  casa  a  suo 
fratello Angelo, mentre alla Tribuna Politica parlava quel senatore.
“Il nonno è scomparso in guerra” dice la nonna.
Manuela  è  tornata  bambina  adesso,  in  questa  casa,  con  queste 
fotografie, non chiede oltre.
In questa casa di tre stanze dove tutto era davvero a portata di mano, 
era  tutto  così  prossimo,  anche  la  felicità  sembrava  qualcosa  che  si 
potesse  afferrare,  nel  sottoscala  tra  le  scope  e  gli  stracci,  come  un 
utensile, come le cipolle per fare il soffritto.
“Lunedì quando torni a lavoro” dice la nonna “non avrai più tempo per 
niente. Sempre curri e scappa, scappa e curri... Lunedì diventa martedì 
e  poi  mercoledì  e  le  settimane  si  currijo 3   accumulando  i  giorni  di  un 
mese, due mesi. Lunedì torni a lavoro.”
“Nonnuzza, ma tu che ne sai del mio lavoro?” si meraviglia Manuela.
“È  una  ditta  che  si  occupa  di  marketing”  dice  la  nonna  “no? 
Pianificazioni  commerciali.  Tu  sei  nel  settore  amministrazione  e 
pianificazione commerciale, area sviluppo marketing analitico.”
“...Nonna ma come le sai tutte queste cose?” 
“Ogni tanto preghi, e allora io nelle tue preghiere ascolto, sento quello 
che mi vuoi dire.”
“Ah, ma allora sei vicina a Dio... che bello nonna!”
Quando era bambina, era stata la nonna a insegnarle le prime preghiere.
“Quanti petri nta sta casa
quanti Angiuri ci ntraso
ci ‘ntrasi Petru
ci ‘ntrasi Giuvanni
ci ‘ntrasi u nostru Diu 
ch’è lu chiù granni
Sant’Anna è me nonna
San Jachinu è me nonnu
L’Angiurelli so fradi e soru
U Bambiuzzu è me cusginu
Ora chi ajiu st’amiggi fidiri
Mi fazzu la cruggi e mi mettu a durmiri” 4

“Brava, te la ricordi ancora! Ma allora non sei vecchia come sembri.” La 
nonna  non  ha  perso  la  sua  ironia  che  aveva  spesso  urtato  Manuela 
nell’adolescenza.  Eh  sì,  perché  la  nonna  non  aveva  peli  sulla  lingua  e 
con dolcezza diceva sempre tutto quello che le passava nel cuore. Che 
spesso era quello che gli altri non volevano sentirsi dire.
Una vecchia, seduta sul comò, le sta dando della vecchia: Manuela è un 
po’  contrariata.  Ma  continua  a  sonnecchiare,  per  paura  che  la  visione 
svanisca negli strati di polvere decennale, o nei vecchi mobili.
Forse non avrà tempo per cercare di avvicinare quello che più le sta a 
cuore.  Magari  fra  un  mese  si  ritroverà  a  pensare  che  la  nonna  aveva 
ragione...
Il  silenzio  è  denso  e  avvolgente  come  una  coltre  di  lana.  Sospira,  di 
fronte a lei c’è l’angolo di casa in cui per la prima volta il suo clitoride 
ha incontrato i polpastrelli di un ragazzo ­ poi per settimane non era più 
andata a trovare la nonna, per la paura di essere scoperta dall’arrossire 
delle sue guance e dal batticuore ­ quell’angolo lontano da ogni finestra, 
protettivo e scuro come un tempo.

La nonna era all’ospedale, s’era tolta i calcoli alla cistifellea. Lei andava 
nelle sere d’estate a dar l’acqua ai suoi gerani rossi e alle ortensie lilla 
che fiorivano sul balcone. Una sera si fece accompagnare da Michele. Un 
bacio tira l’altro, un abbraccio più lungo, il silenzio della casa...
Dalle  fessure  delle  palpebre  guarda  la  nonna  per  capire  se  lei 
s’immagina  qualcosa.  Forse  ha  cambiato  stanza.  La  nonna  non  c’è.  Si 
sveglia movendosi lentamente. È nel letto della nonna, nella sua stanza, 
come quand’era piccola, con le coperte rimboccate sotto il mento per 
non prendere freddo.
“Nonna” chiama “Nonna”
Si siede sul letto, senza scoprirsi. Tossisce un po’, quelle coperte di lana 
sono intrise di polvere.
“Noonna” dice quasi cantilenando.
Nella sala da pranzo l’album è aperto su una foto della nonna che tiene 
per mano lei e suo fratello: primi anni ’70. Ne sfoglia le pagine, tutte le 
foto al loro posto. Sul tavolo alcuni mucchietti di fotografie avanzate; le 
prende,  sembrano  in  ordine  cronologico,  i  vecchi  bianco  e  nero,  le 
prime a colori, qualche polaroid.
“Tornerò  per  Natale”  pensa  “vediamo  se  fino  ad  allora  ne  avrò  ancora 
bisogno”, ma sotto la pelle di quel pensiero ce n’è un altro, sorridente 
“chissà se tornerà a farsi vedere la nonna?” Lo spera come una bambina 
che attenda una favola.
Seduta  sull’armadio  della  sua  stanza  la  nonna  sorride  anche  lei,  ma 
senza farsi vedere “a me Michele mi piaceva per te, perché non te lo sei 
preso?”, ma questo Manuela non può sentirlo.
Ha già chiuso la porta, cinque mandate, e via.
Ciao paese, non so bene come ci rivedremo.
La nonna, al balcone, guarda l’auto ormai lontana tra le curve: a volte 
dimenticare è necessario per vivere, ricordare per non morire.


1   Ma lo sai che quando mi pensi mi prude il naso, ma non è che capiti spesso...

2   “Caspita... lontano te ne sei andata”

3   rincorrono

4   “Quante pietre in questa casa/ quanti Angeli ci entrano/ ci entra Pietro/ ci entra Giovanni/ 
ci  entra  Dio  nostro  che  è  il  più  grande/  Sant’Anna  è  mia  nonna/  San  Gioacchino  è  mio 
nonno/ gli Angioletti sono fratelli e sorelle/ il Bambinello è mio cugino/ ora che ho questi 
amici fedeli/ mi faccio la Croce e mi metto a dormire”


precedente
successivo