Ab Normal
L’imbambito (the magic power of chelzagat)


Fuori dal treno – pennuti presagi
Mia nonna è meglio della bamba. Se la potessi sniffare lo farei ogni volta che
si affaccia sulla soglia della mia stanza e mi dice sorridendo: “A t’ho fat i
chelzagat*”. Non si stanca mai di farmi i chelzagat, non si stanca mai di farmi
sorridere. Il sorriso lo fa con gli occhi, grassi anche quelli, lei che è tutta
grassa. Sono grassi anche i fiori dei suoi vestitini che compra al merchee.
L’altro giorno mi chiede se la accompagno all’ospedale di Baggiovara che
deve andare dal dottore per il colesterolo, la mamma non può perché deve
lavorare. “T’am port te all’usdel, nini?”, mi chiede mentre lava i piatti, sposta i
piedini tondi e agita il culone, dando al lavaggio un che di ballo caraibico.
Come si fa a dire di no a chi ti chiama nini, quando tutti gli altri ti
chiamano tosic o boun da gninta?
Così nini fa sì con la testa, mentre aiuta a riporre i piatti asciugati sul
ripiano scarlancato. Nini tralascia il dettaglio che i caramba gli hanno ritirato
la patente, gli ultimi 5 punti rimasti. “Oh, ti sei tirato anche quelli!” mi ha
detto al telefono il mio amico Giangi, ridendo. Sfotti Giangi, te che la patente
l’hai venduta a un maroc tipo Isis che adesso si chiama Giangi Tagliazzucchi e
risiede a Fiorano. Brev Giangi...bella mossa.
Penso e ripenso e all’ultimo piatto, che ripongo più lentamente, come al
fotofinish, ho la soluzione.
“Nonna, ma se ci andiamo in treno?! Dai, che figata! Oh, nonna,
fighissimo!” esclamo io, che cerco di vendergliela come fosse una cosa pazza
ma imperdibile, quegli sfizi da togliersi dopo gli 85 anni, quando non hai più
niente da rischiare. Una volta su una rivista ho visto la foto di una
ultranovantenne americana che si buttava per la prima volta col paracadute.
Grazie al cazzo, a quell’età son buono anch’io.
“D’un dicci..ma no, dai... sa vot c’a faga me s’un treno...”. Agita
ancora di più i piedini tondi adesso che è passata al mucchione di posate, ma
secondo me ha paura. I treni fanno paura quando non li hai mai presi.
“Ma ci sono anch’io, nonna, mica ti lascio da sola”
“Beh mo’! E la to’ machina?”
“Nonna, non mi dire che hai paura? Guarda che il treno è strepitoso, va
provato assolutamente”.
“Mmm...”
“Ci va sempre anche la Nives del primo piano, la tua amica. Ci va a
trovare un nipote”
“Ah sè? La Nives Ziroli?”
“Daboun, nonna, daboun..”
Col cazzo che mia nonna è amica della Nives, le sta assolutamente sui
maroni. Ma se ti giochi bene il bluff, se semini la giusta zizzania, quella che
mette due donne in competizione, otterrai tua nonna che prende un treno.
Anche solo per raccontare giù in cortile alle altre nonne che lei ha preso un
treno. Monopolio della conversazione assicurato, ammirazione e stupore,
Nives che va al tappeto.
“Moh...adesa ag peins...”
“Beh nonna, quando hai deciso fammi un fischio, me a vag da Giangi”
“Ah, va por...”
In cortile, dopo avergli suonato, aspetto il Giangi. In automatico mi
accendo una paglia e mi metto a guardare la campagna brulla e piatta che
inizia poco più avanti, oltre la recinzione del condominio. Il sole ormai
scomparso ha colorato un pezzo di cielo di lunghe lingue scarlatte, sembrano
le piume di un gigantesco Dio Uccello che veglia sulla pianura padana

(anche i drughee, penso, si concedono qualche licenza poetica quando fumano le
paglie). Mi sto guardando i piedi infilati nelle sneackers che sarebbe anche ora
di cambiare, considerato che il pollice sembra stia per venire al mondo ogni
giorno di più, quando davanti a me avviene qualcosa che farei rientrare nel
cosiddetto Realismo Magico. Preambolo necessario: visto che il Giangi mi
passa il suo accesso a Netflix, la prima cosa che ho guardato d’un fiato è la
serie Narcos, dedicata alla vita del mitico narcotrafficante colombiano Pablo
Escobar (che riposi in pace, segno della croce e bacino sul dito). Nella prima
puntata, visto che poi di cose ne succedono di cotte e di crude, si parla di
Realismo Magico, ovvero l’introduzione nella narrazione della realtà di un
elemento troppo strano per essere vero.
Tornando al discorso, ovvero ai miei piedi sneackerati, alzo lo sguardo e
davanti a me vedo un enorme uccello esotico che cammina tranquillo, uno di
quelli che giuro ho visto solo in un documentario sulla natura selvatica della
Colombia (sì, sono uno che si intrippa sulle cose). Era lungo almeno due
metri, tutto bianco con la coda blu. Bellissimo. Da sopra gli occhi spuntavano
altre piccole piume azzurre, come una piccola corona. Mi ha fissato, come ti
guardano anche i piccioni, solo da un lato. Sarà passato almeno un minuto
buono così, in silenzio. Poi, quando il Giangi ha aperto il portone, ha fatto un
balzo ed è volato via sbattendo le sue bellissime ali da cicogna del
narcotraffico.
“Giangi...ma hai visto che robaaaa?” dico io a bocca aperta, saltellando.
“Eh? Cosa?” mi risponde lui senza guardare, mentre smanetta il telefono.
Sei inutile Giangi, come sempre.
Visto che tendo al pessimismo, mentre ci incamminiamo verso la
macchina, penso che quell’uccello così bello possa anche portare un po’ di
sfiga. Senza che il Giangi mi veda, mi dico un “Tiè” e ritualmente mi tocco i
maroni.
Sul treno – la verità rivelata
Due giorni dopo siamo alla stazione di Fiorano, diretti alla fermata di
Baggiovara Ospedale. La mattina presto io connetto sempre molto poco, al
contrario della nonna che è un grosso, lento animale diurno. Come tutti gli
animali non riesce a nascondere la paura e sulla banchina, in attesa del
localino, è rigida e muta, con le orecchie all’indietro e la coda fra le gambe.
“Nonna, mi sembri la Dora quando la stavi per menare con la scopa”.
Dora era il cane della nonna, grassa pure lei.
“Ma va a cagher, nini...” mi dice sorridendo.
“Guarda che non va micca a Bucchenvald il treno...”, rincaro la dose.
“Mmm, sumèr...”.
Sguardo fisso sul nulla, la nonna è pronta al sacrificio estremo. Da
almeno un quarto d’ora stringe forte la borsa come se a fianco a lei ci fosse
uno scippatore invece che suo nipote. Oddio, a onor del vero, un
precedentino per scippo ce l’avrei...
Arriva il localino, tutto bianco­rosso­verde e moderno. Dopo aver
superato indenni il pericolo dei gradini riusciamo a salire, io che la spingo da
dietro, lei che arranca e slitta e ansima. Finalmente prendiamo posto e le
sorrido.
“Visto che bello?”
“Tes, tes, tes...mai piò, mai piò, nini!”
“Ma se non siamo ancora partiti!”
“Ah no?”
Scuoto la testa e lascio perdere. Quando è così nervosa meglio lasciarla
stare, per quieto vivere. Sennò inizia a chiedermi se mi sono trovato un
lavoro.
“Et andee al Centro per l’impiego?”
Lo sapevo. Sto zitto, mi mimetizzo. Gli animali notturni rimangono
immobili per sopravvivere. Io che lo sono, appoggio la testa e chiudo gli
occhi, mentre in sottofondo sento una lunga filippica sulla necessità dellavoro, “...e io alla tua età...”, “...ci vuol la volontà...”, “...metter su
famiglia”. Sono le solite parole, come quelle di una canzone che ti entra in
testa e non va più via. Non voglio dire alla nonna che Nini se ne frega dal
profondo del cuore di tutte quelle cose, sarebbe troppo crudele. Nini è un
animale notturno, nonna.
Mi limito a rimanere così, in attesa del cambio del disco.
Eccolo.
“Qual lè l’era al puder ed Zanotti, al fiol d’la Ornella “Pataja”, c’la
spusee un Zanotti...”
Mia nonna è meglio di un disc jokey. Mette su il disco giusto quando si
accorge che l’altro non tira.
Annuisco e le do corda, che avanti così si arriva lisci lisci all’Ospedale.
Con la coda dell’occhio guardo i campi, appartenuti un tempo a figure
mitiche, scorrere veloci all’indietro, mentre io me ne frego e vado avanti.
Devo essermi addormentato perché quando ho riaperto gli occhi
eravamo già alla fermata Baggiovara, quella prima della nostra, Baggiovara
Ospedale.
“Dai nonna che ormai a sam arrivee...” dico stiracchiandomi a lungo. Il
treno riparte veloce.
La guardo e sento il cuore fermarsi, mentre un’ondata di freddo mi
prende la bocca dello stomaco. La nonna ha la testa reclinata all’indietro, gli
occhi aperti, non si muove. Non respira e ha le mani ciondoloni. Per terra c’è
la sua borsa da cui mi accorgo escono quelli che devono essere dei chelzagat
avvolti nella stagnola. Aveva detto che li portava al dottore, ma credevo che
scherzasse e...
Gli animali notturni non fanno rumore, e anche io non riesco a dire
niente, a fare niente. Mi lascio sprofondare nel sedile, ma vado molto, molto
più giù, verso quello che mi sembra il Centro della Terra. Un lungo budello
sotterraneo, freddo e spietato.
Mi prendo la faccia fra le mani e rimango così, mentre avanzo dentro a
quel tunnel orribile barcollando, a tentoni. Poi mi volto, la rivedo immobile e
per disperazione sposto lo sguardo al finestrino. Spalanco gli occhi. Fuori,
rasente al vetro, sta volando l’uccello bianco, enorme e magnifico, le piume
blu che si piegano e vibrano, sembra sfruttare la scia creata dal treno. Mi fissa
ancora con l’occhio e sembra dirmi qualcosa.
Ho capito. Una rivelazione. Ho la certezza di una grande verità. La
nonna, l’anima della nonna è passata nell’uccello e ora mi guarda. Nonna, no,
non andare... Non mi lasciare... Poi in un attimo crudele l’uccello si
impenna e sparisce.
...”C’sa fet? Set vest, nini?”
Chi parla...? Chi è...? Nonna?!
“Am sun indurminteda...a sam bele arivee?”
Davanti a noi compare la scritta “BAGGIOVARA OSPEDALE”. In fretta e
furia raccolgo borsa, vecchi esami del sangue e i chelzagat, e scaravento la
nonna fuori dal treno, spingendola come un armadio pieno.
“Ma fa pian, te m’fe cascher...”
“Scusa nonna, ma credevo che eri morta”
Sulla banchina rosa dal sole la nonna mi guarda, guarda quella che le
sembra una faccia sconvolta e allo stesso tempo felice. Il treno riparte.
“Scolta nini, te a forza ed tirer la bamba te dvintee un
imbambii...beda ch’la vecia imbabida a sun me...te te incara zoven...”
“Nonna...ma che bamba? Cos’è, il ballo? Io mica lo so ballare, non
capisco...”
“Andam valà, c’a voi der i chelzagat incara cheld al dutor”
Avanziamo piano lungo la banchina. Do uno sguardo al cielo terso, per
vedere se vedo il grosso uccello. Non c’è. Né di qua, né di là. Eppure l’ho
visto. Era così bello, e dava una tale pace...“’scolta nini” mi fa la nonna, poco prima delle scale che portano
all’uscita.
“Sì, nonna?” dico io, con una tale dolcezza che non mi riconosco, come
se un alieno buono si fosse impossessato di me.
“Et andee al Centro per l’impiego?”
A volte la bamba è meglio della nonna.


*Calzagatti. Per gli extracomunitari e i marziani non modenesi, è un
tipico piatto locale a base di polenta e fagioli. L’impasto è tagliato a listelli e
fritto nello strutto.

 


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