La Manx
L’osso del bisonte

Fran si appende alla gronda e si dondola nell’aria mentre guarda
lontano. Si appende per le mani, che si afferrano alla sporgenza del
tetto come tenaglie. Le braccia di Fran sono fili d’erba e le sue gambe
ramoscelli. Fa l’appesa per ore, segnavento pelle e ossa. Crede che
potrebbe saltare giù senza farsi male. Come un gatto, potrebbe
atterrare sull’erba soffice del giardino e girellare per l’isolato. Ma
preferisce stare lassù, più vicina a Jan che è volato in cielo. Lei non l’ha
visto volare ma gliel’hanno raccontato.
Da sotto, passando, qualcuno la chiama: “Fraaaan, come sei leggera
oggi Fran!”
Fran chiude gli occhi, e riposa nei suoni: nel soffio del vento fra i rami,
nello scorrere lento del fiume, nel tramestio di persone e animali, in
una voce alla radio, nei brusii del mondo. E quando tutto fa silenzio,
riposa ancora nel battito impercettibile del suo cuore.
I suoi piedi oscillano in prossimità della finestra aperta della soffitta.
Quando ha finito il suo penzolare, molla la presa e con un guizzo salta
dentro la casa.
“Hai visto, Jan?” dice a una piccola sedia vuota. Jan è volato via ma è
anche lì, in quella soffitta, a tenerle compagnia. Giù non ci va mai Fran,
non di giorno. Resta in quella soffitta da quando Jan se n’è andato.
Qualcuno le porta cibo e bevande che lei consuma volentieri, e un
catino di acqua, nuova ogni giorno, per lavare la pelle ossuta. Le mani
sono diventate fortissime di muscoli e ossa. Le guarda contro il sole e ci
vede dentro tutta la forza di cui ha bisogno. Sbarra dall’interno la porta
della soffitta dopo che una volta avevano cercato di riportarla di sotto.
Sotto invece, la porta la lasciano aperta: sanno che di notte Fran
passeggia per le stanze, carezza i capelli dei suoi che dormono ma forse
fanno finta, apre il frigo per curiosare e sbocconcellare qua e là. Non
sanno che dopo scende le scale, esce dal portone e cammina verso
l’argine, verso il posto suo e di Jan.
Il posto suo e di Jan sul fiume è intatto, nella foltezza sicura delle
piante. Lo visita ogni notte, anche stanotte. Siede sul grande tronco
mozzo, custode fidato di un tesoro fatto di reperti rinvenuti in stagioni
di avvincenti esplorazioni. Con un lungo arnese curvato ad artiglio, li
estrae a uno a uno dalle profonde e ampie fratture del legno, e li
compone a terra in un quadro che è sempre lo stesso: da sinistra, in
prima fila, il dente acuminato di un animale feroce forse preistorico, il
bossolo di ottone della Grande Guerra, da tenere da conto e lucidato, il
becco di un nibbio nero, adunco e affilato ai bordi, la piuma verde
smeraldo di un volatile che era di passaggio, più unica che rara, mai più
trovata una così; subito sotto, in seconda fila, il sasso candido che
abbaglia se lo guardi al sole, il nido minuscolo precipitato dall’alto
senza niente dentro, la scaglia del carapace di una tartaruga vecchia e
malata, la pelle vuota di un serpentello d’acqua lungo un metro; e
ancora sotto, in terza e ultima fila, il guscio di una chiocciola gigante, di
quelle magari se ne trovano ma non di così enormi, la goccia di
cristallo che chissà da che lampadario proviene, la chiavetta arrugginita
che apre sicuramente qualcosa, la biglia di terracotta che era stata del
nonno; poi i doppioni, esemplari meno rari, vari, di scorta. In una
piccola cavità fra tronco e terriccio sabbioso, avvoltolata nella plastica,
giace la mappa delle avventure, dove Fran ha segnato con una crocetta i
luoghi dei ritrovamenti più importanti. “Jan, amico mio, come farò a
trovarlo ora?” dice con voce flebilissima. Subito, come a risponderle,
l’allocco lancia il suo verso acuto. “Shhhh, stai un po’ zitto!” lo
rimbrotta Fran mentre si acciambella sul grande tronco mozzo per
sognare un po’.
Stanno pensando a come fare con lei: se aspettare che tutto passi, se
chiamare qualcuno che possa aiutare.
Spesso bussano alla porta della soffitta: “Fran, piccola, non crederai mai
a quello che è successo...” e mentre dietro l’uscio l’ennesimo racconto
prende forma, Fran sale la scaletta a pioli fino al lucernario, sbuca sul
tetto e si cala nel vuoto, le mani aggrappate alla gronda, una sola a
reggerla mentre gira le spalle al muro, poi di nuovo la doppia presa, e
rimane così, a penzolare, a riposare.
Oggi è appesa da ore, sta lì a farsi tintinnare sordamente dal vento, a
guardare oltre il primo argine. Stavano cercando qualcosa lei e Jan e
l’avrebbero trovata presto, se lo sentiva, e anche Jan sembrava sicuro
del fatto suo, lui cercatore abile e rinvenitore istintivo di reperti
speciali, lei catalogatrice e conservatrice minuziosa, puntuale
aggiornatrice della mappa: una squadra senza eguali, “siamo super!”,
diceva sempre a Jan.
Non rientra ancora. Bussano forte per ricordarle che il cibo è dietro la
porta da ore: “Su Fran, scricciolo, oggi ci sono le fragole brodose della
nonna, tu non resisti alle fragole brodose!”.
Forse scenderà, per le fragole, dopo, ma intanto guarda sempre là,
verso l’argine. La luce del tardo pomeriggio è la sua preferita. In quella
luce si fanno sotto moscerini a nugoli che le solleticano il naso, e allora
sbuffa, a quest’ora gli altri giorni è già sulla seggiola, alla finestra della
soffitta. Oggi si ostina a restare penzoloni, le mani, i polsi, tutte le
braccia fino alle spalle sono fili di ferro, forti oltre ogni immaginazione.
E mentre sputacchia via un moscerino dalla bocca, vede qualcosa
muoversi in quella lontananza tanto scrutata. Una figura piccolissima,
perché lontana, ma che conosce, riconosce. Un fremito grande le
scombina il cuore e il corpo intero in un’onda, e in gola fiotta un
sussulto di voce:”Jaaaaaaan...”, lacrime bollenti sgorgano dagli occhi
spalancati mentre un sorriso la invade,
...Jaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaan...”.
Deve correre laggiù, subito, come un gatto, saltare, salta Fran, come un
gatto! E non ci pensa, lo fa, allenta la presa, abbandona la stretta e
scivola giù, nell’aria densa di insetti fino a toccare terra, l’erba soffice e
tiepida.
Ma è un tonfo di ossa, un andare in frantumi. Un trovarla in cocci
irrimediabili. Fran non sente nulla, in un torpore dolcissimo, come se
niente fosse, si mette a correre verso l’argine, verso Jan che è tornato,
non si sa come, finalmente.


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