Luca Bulgarelli
Miboli

Ci sono visi e parole, inscritti in circostanze, che determinano luoghi e
tempi del passato, canzoni, a volte, che hanno accompagnato quei
giorni lontani, come se celassero un segreto o se fossero risposta ad un
dubbio, ma Miboli il contadino, nella sua dimensione agreste, riduce
tutti gli spazi percorribili nel tempo di una vita al confine delimitato da
campi, vigne e tetti bassi di porcilaie quasi invisibili nella nebbia
autunnale che sembra prodotta dal loro stesso afrore. Era, egli, il
custode del cane da caccia di mio nonno, unica vestigia di un passato
venatorio che, dopo avergli quasi strappato un braccio, continuava a
riprodurre nelle corse inutili del segugio e nei latrati di gioia del
povero animale, quando finalmente poteva scorrazzare tra le forre, in
compagnia dell’antico padrone. Miboli ci accoglieva con quella sua aria
sorniona, in bilico tra la facezia e il lascivo, le guance sempre avvolte
dal rossore tipico dei forti bevitori di lambrusco e la sua schietta
volgarità contadina, infarcita di ignoranza e scempiaggine, che, per
fortuna, nessuno, allora, aveva ancora eletto a cultura. Avendo il
nonno, cambiato lo schioppo con la canna da pesca, ci si inoltrava per
angusti sentieri, posti al confine tra le terre di pianura e gli aridi brulli
monti segnati da calanchi desolati che franavano inesorabili su loro
stessi. Cercavamo, tra le rive scoscese di un torrente misero, un luogo
idoneo per allestire i nostri apparati di cattura, un’ansa più larga dove
la corrente, addolcendosi, potesse permettere di tendere trappole
efficienti a qualche trota incauta. Il cane ci accompagnava
scodinzolando e anche Il prode Miboli si avventurava con noi portando
in un barattolo una pastura miracolosa che, a suo dire, avrebbe fatto
abboccare tutti i pesci del torrente. Teneva nascosto, nel risvolto del
suo giaccone da stalla, un fiasco impagliato, allora molto comune, dove
al vino erano stati aggiunti quadretti in brodo, così poteva mangiare e
bere nello stesso tempo. Rideva scanzonato di tutto e tutti, e coglievo il
divertimento di lui nello scandalizzare mio nonno serio e compunto
artigiano, stimato padre di famiglia, onesto lavoratore, antico partigiano
e compagno di ferro, uno che aveva chiamato, nonostante l’Ungheria e
tutto il resto, Stalin il suo cane. Notavo però una grande deferenza nei
confronti del mio avo, una stima profonda e un sincero rispetto, capii
così che il suo chiassoso vociare, le sue allucinanti esagerazioni erano
in realtà un distorto modo per mostrare amicizia e patetica devozione
frutto di una sincera ammirazione nata, seppi in seguito, nei lontani
anni di militanza partigiana. Mio nonno si era infatti guadagnato il
nome di battaglia di Zorro: complice il Miboli si erano acquattati una
notte dinnanzi alla porta di un noto bordello, ubicato nelle campagne
di Portile e frequentato da turme di repubblichini, nell’oscurità più
totale mio nonno sparò una confusa raffica di sten contro la porta del
postribolo ad avvisare le donnine che a breve i loro crani avrebbero
conosciuto l’infamia della rasatura e della pece. A molti curiosi, il
giorno seguente, parve che i proiettili conficcati nel legno
determinassero una sorta di zeta, questo segnò per sempre il destino di
mio nonno e di Miboli nelle file dell’armata di liberazione, che
divennero Zorro e Bernardo. Altri particolari di quei duri anni di
militanza sono a me ignoti, ma i due rimasero amici fraterni per tutta la
vita e al funerale di mio nonno, il coriaceo contadino, pur non
versando neanche una lacrima, aveva inciso sul volto una espressione
di così mesta tristezza che non si poteva dubitare di un dolore
profondo e solenne. Finita la battuta di pesca, che risultava spesso
infruttuosa, mentre noi terminavamo di preparare le nostre cose per il
rientro in città, Miboli, scapolo impenitente, si dedicava alla toilette in
vista della serata, che dopo l’osteria, lo avrebbe immancabilmente
condotto a quel bordello clandestino, dove, esercitavano ancora alcune
di quelle professioniste, da lui rasate molti anni prima. Andava nella
stalla dove custodiva Odoacre, il più rinomato toro dei paraggi, che
solo lui riusciva ad avvicinare impunemente, dopo avere passato le
mani sopra le cosce sudate dell’animale, usava quella sorta di grasso a
guisa di brillantina, sostenendo che quella operazione gli avrebbe
garantito una eccezionale prestanza sessuale, una specie di viagra ante­
litteram. Quindi il nostro agreste Sansone si avvicinava alla fontana
posta nell’aia, una vasca in granito dove l’acqua veniva attinta mediante
una leva e si lavava l’enorme busto ridendo e cantando a squarciagola
antiche arie d’opera. Si lasciava i peli delle ascelle impiastricciati di
sapone sostenendo che questo sciogliendosi col calore lo avrebbe
preservato più a lungo dall’odore fastidioso di sudore.
Io ero, allora, un innocente bambino triste che volava attraverso i
campi e seguiva stupito i vortici delle onde dalle rive scoscese del
torrente. Avevo portato, quel giorno, uno di quei missili che si lanciano
con una sorta di fionda ad elastico e che al termine della loro corsa
discendono lentamente accompagnati da un paracadute. Zorro e
Bernardo pescavano silenziosi all’ombra antica di un olmo. Le parabole
compiute dal razzo mi avevano portato sempre più lontano sino a
giungere ai piedi di una collina, primo vago accenno di quella catena di
monti, che si ergeva maestosa nella distanza. Già da quella modesta
altezza si riusciva ad avere una visuale strategica della zona: l’ampia
ansa del fiume, la stradina sterrata, la casa del contadino e trecento
metri più in là, la via nazionale che iniziava ad inerpicarsi tra i
contrafforti delle montagne. Lanciavo il razzo dalla parte opposta del
torrente, per timore che questi potesse cadere tra le acque vorticose
del fiumiciattolo, così, dopo un volo più ardito degli altri mi ritrovai a
cercare il mio veicolo spaziale disperso tra gineprai di ortiche e rovi. Il
mio sguardo si posò tra due rocce dove notai una specie di varco, una
sorta di grotta invisibile a valle, incuriosito vi entrai. Attesi qualche
secondo, per abituare i miei occhi alla semioscurità che regnava
nell’antro, poi iniziai con circospetta e meravigliosa attenzione infantile
l’esplorazione della caverna misteriosa. Il suolo era ricoperto da un
soffice strato di terriccio, pareva sabbia, non vi era traccia di
vegetazione e l’aria era fresca e rarefatta come se provenisse dal cuore
della terra. Mentre procedevo con circospezione cominciai ad
incontrare degli oggetti: contenitori metallici, una piccola cassetta di
legno, poi qualcosa mi fece inciampare e caddi a terra, mi rialzai
confuso e vidi un paio di stivali, poi, seguendoli, il mio sguardo si trovò
a scrutare dentro i buchi ciechi del cranio del soldato morto. Caddi a
sedere, confuso, ma non spaventato e cercai di mettere a fuoco la
scena. Nell’angolo appoggiato a sedere contro la parete della caverna si
trovava il cadavere di un soldato tedesco. Lo riconobbi dall’elmetto e
dai resti dell’uniforme che ancora qua e là coprivano quelle misere
ossa. Accanto a quei relitti, semisepolto dalla sabbia, il calcio di un
fucile. Nessuno sembrava avere violato quella morte ed io mi misi ad
osservarla, il corpo dell’uomo pareva adagiato con dolcezza al muro di
roccia, l’elmo era calato sulla fronte coprendo in parte le orbite del
cranio. La posizione apparente di quiete pareva suggerire una morte
dolce, come se si fosse adagiato per riposare, ma sapevo che era morto
in guerra e pur nella mia mente immatura avvertivo che una fine del
genere non può non sottintendere un atto di deliberata violenza. Tutte
le parti in cuoio dell’equipaggiamento erano intatte, e dietro alla
schiena faceva capolino il cilindro della maschera antigas. Scrutai la
notte infinita delle voragini d’osso che un tempo avevano contenuto gli
occhi, la mandibola cedendo lievemente sembrava esibire un sorriso
orribile e beffardo. La brezza, entrando, sorvolava le pieghe dure della
roccia provocando mormorii e sibili quasi come se quell’uomo avesse
ancora qualcosa da confessare alla pietà di un suo simile che finalmente
lo aveva tratto in salvo dal naufragio di una solitudine infinita. Dopo
qualche minuto che mi sembrò eterno mi ritrovai a correre a perdifiato
lungo le pendici del colle. Mi avvicinai a mio nonno strattonandolo per
la manica della camicia, in silenzio, senza una parola alzai il dito
indicando sconvolto la parete della collina.
I due vecchi partigiani scavarono mestamente una profonda buca ai
piedi dell’olmo e vi riposero, con la delicatezza che solo i vecchi
possiedono, i resti dell’antico nemico, misero accanto al cadavere dello
sconosciuto tutte le cose che trovarono nella caverna compreso il fucile
e le casse di munizioni, Miboli trascinò col trattore una catasta di legna
sul luogo della sepoltura per evitare che si notasse la terra smossa. Ci
guardammo a lungo in silenzio, due vecchi e un bambino uniti da un
segreto; io che non capivo ancora nulla della vita conoscevo già la
morte, avevo vagato tra il vuoto del suo sguardo, ne avevo misurato il
tempo invincibile e sconfinato. I nostri occhi che si incontravano
riflettevano solo paura, l’orrore dei due vecchi sembrava immune
anche al mio sguardo di bimbo che li interrogava, come una supplica,
per avere una risposta che non sapevano o non volevano darmi.
Tornai, molti anni dopo, a trovare il vecchio Miboli, che ormai vetusto
riusciva a muoversi solo con l’ausilio di un bastone. Parlammo di pesca
e ricordammo mio nonno, passeggiammo lentamente sino al possente
olmo, nessuno disse una parola a proposito del soldato morto, ma vidi
che qualcuno aveva piantato sul luogo della sepoltura un cespuglio di
rose, i loro boccioli prossimi alla fioritura si muovevano pigri nella
brezza di maggio.


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