Arto Humo
Il paradiso di Tony Pastello

Tony Pastello era un tipo delicato.
Era entrato molto delicatamente in questo mondo quando sua madre 
Rose  lo  aveva  partorito  senza  sforzo,  ottavo  figlio  e  primo  maschio 
dopo  sette  sorelle,  mentre  su  una  poltrona  di  parrucchiera  di  Court 
Street a Brooklyn, nella primavera del ‘37, si faceva la permanente con 
un  attrezzo  diabolico  che  assomigliava  molto  a  una  mungitrice 
automatica.
Il  parto  era  filato  via  così  liscio  che  a  Rose  era  sembrato  quasi  uno 
scherzo.  Non  le  aveva  strappato  neppure  un  gridolino,  e  tutto  quello 
che si era concessa era stato un ‘oh’ di sorpresa, e poi se ne era quasi 
subito dimenticata, tanto che la signorina Abbagnale, la proprietaria del 
salone,  l’aveva  dovuta  rincorrere  mentre  già  si  dirigeva  verso  l’uscita 
gridando: “Signora, ha lasciato questo!” e le aveva allungato il piccolo 
Tony  tutto  polveroso  di  borotalco  e  profumato,  avvolto  nelle  pagine 
centrali di una copia di Vanity Fair del Maggio 1935, nel quale T.S. Eliot 
presentava  una  sua  versione  all’acqua  di  rose  delle  melanzane  alla 
parmigiana.
Da piccolo Tony si sentiva spesso molto diverso dagli altri bambini di 
Red  Hook,  quel  pezzo  di  Brooklyn  che  dà  sulla  Upper  Bay  dove  i 
Pastello vivevano in un piccolo cottage di Conover Street. Non provava 
nessun  piacere  ad  esempio  a  prendere  parte  a  quello  che  i  suoi 
coetanei  del  quartiere  sembravano  giudicare  il  maggior  sollazzo  del 
mondo  e  che  consisteva,  per  dirla  semplice,  nel  vagare  in  un  branco 
randagio  per  le  strade  a  prendere  per  il  culo  gli  immigrati  Norvegesi 
ubriachi che popolavano la zona e a sollevare le sottane alle loro donne 
solide e poppose.
Tony  lo  trovava  molto  volgare  e  anche  stupido,  pericoloso  in  misura 
non  trascurabile  per  dei  ragazzini,  perché  provocare  dei  marinai 
norvegesi disoccupati e dediti all’alcol può avere conseguenze serie, e 
si narrava con un brivido di certe aringhe affumicate finite in posti dove 
non si dovrebbero avventurare se non per propria libera scelta.
A  Tony  invece  piaceva  parecchio  camminare  da  solo  fino  in  fondo  a 
Conover Street, quando sfocia nel porto, e poi lungo le banchine dove 
arrivavano i barconi provenienti perlopiù dal lago Erie per rifornire di 
pelli  di  castoro  sintetico  e  truciolare  scadente  l’IKEA  che  c’è  lì  dietro 
l’angolo.
Si spingeva allora fin oltre il molo 41, passato il magazzino Liberty, che 
si chiama così perché da quel punto si vede, dall’altra parte della baia, 
la Statua della Libertà, e un po’ più in là, nella bruma di quell’ultima 
lingua  di  Atlantico,  appare  l’estremità  sud  di  Manhattan,  con  i 
grattacieli dalle punte luccicanti di rame e di zinco e acciaio lucidato a 
specchio  da  certi  inservienti  negri  che  si  calano  legati  a  delle  corde 
dalle  guglie  più  alte  e  ci  dan  giù  di  olio  di  gomito  e  di  un  prodotto 
americano simile al Sidol, ma molto più togo e potente, che nella luce 
azzurra e d’oro del tramonto li fa brillare come i pinnacoli del regno di 
Oz.
Come  incantato,  per  lunghe  ore  il  bimbo  Pastello  restava  a  guardare, 
oltre  il  porto,  quel  mondo  di  luce,  e  si  immaginava  una  vita  a  sua 
misura, da vivere domani e fatta come piaceva a lui, cioè splendente e 
raffinata  nel  cuore  vivo  della  città,  quell’isola  d’oro  dove  su  Park 
Avenue  avrebbe  aperto  un  salon  de  beauté,  o  un  negozio  di  fiori 
speciale très chic, nel quale le signore eleganti della New York come si 
deve sarebbero arrivate in auto lussuose velate di Chanel a comprare a 
manciate dei fiori magnifici e rari, che lui, e lui solo, avrebbe importato 
dal Siam e dal Giappone, e da certe minuscole isole oscure intorno a 
Sumatra, dove su alberi enormi più antichi del mondo, a succhiarne la 
linfa  come  un  vampiro  diafano,  si  trova  un’orchidea  così  delicata  da 
essere fin trasparente, che va maneggiata con un guanto sottile sottile 
tessuto di fili di seta di ragno.
Altre volte si vedeva come un benevolo maestro di eleganza, raffinato e 
tenue come mai nessuno prima di lui, portare cravatte a sbuffo leggere 
e tenere salotto in un attico enorme affacciato sul parco, con i divani 
bianchi  e  i  tavolini  di  cristallo,  e  teli  di  seta  rosa  antico  alle  pareti, 
mentre con un lungo bocchino di avorio tra le dita guardava di sotto, 
da ampie vetrate, la gente formica sciamare giù in strada.
Una  cameriera  con  la  cresta  avrebbe  servito  allora  litri  di  tè  cinese 
delicato in porcellane finissime con minuscoli fiori turchesi sul fondo, e 
lui  lo  avrebbe  sorseggiato  col  mignolo  dritto  e  vaporosa  voluttà, 
insieme  ai  suoi  sceltissimi  amici  del  mondo  splendente:  architetti  di 
grido dell’una e dell’altra sponda, contesse, pittori di fama, ragazze di 
buona  famiglia  con  moltissimi  denti  bianchi,  alcuni  ben  selezionati 
critici  d’arte,  salaci  e  pungenti,  i  sarti  più  in  voga  e  le  attrici  di 
Broadway dai boccoli d’oro.
Così si passava i pomeriggi il bimbo Tony: sospirando seduto sul bordo 
delle acque nere della baia. 
Mentre lui sognava quel suo domani a tinte leggere però, il dio del caso 
infame  che  regola  le  cose  del  mondo  macinava  per  lui  ben  altri 
progetti.
E’  cosa  nota  infatti  che,  se  vostro  padre  ha  una  panetteria,  ci  sia  una 
probabilità  piuttosto  alta  che  prima  o  poi  finiate  all’alba,  sudati  e 
sporchi di farina tipo 0, a infornare pagnotte per tutto il quartiere. Se 
invece in famiglia, mettiamo, si praticasse il nobile mestiere della legge 
e foste nati nella parte sbagliata della città, ve lo si darebbe venti a uno 
che un giorno vi sveglierete, bacerete sulla guancia una moglie grassa e 
malvestita e dopo un caffè bruciacchiato bevuto in piedi e in fretta, vi 
dirigerete verso un ufficetto malmesso, col vostro nome scritto a lettere 
maiuscole da un pittore di insegne sul vetro della porta, dove il vostro 
tempo  passerà  tra  codici  polverosi,  giorno  dopo  giorno,  a  studiare 
come difendere per quattro soldi dei ladri di polli.
Non nascondiamocelo: è così che in genere vanno le cose, e sottrarsi a 
questo  meccanismo  è  molto  più  complicato  e  difficile  di  quanto  si 
pensi  nell’ingenuità  felice  dell’infanzia,  dato  che  spesso  dobbiamo 
seguire  la  corrente,  e  non  sempre  il  vento  gira  dalla  parte  giusta, 
almeno  non  da  quella  che  avremmo  voluto  io,  voi  e  il  piccolo  Tony 
Pastello seduto sul bordo.
“E il padre di Tony?” verrebbe da chiedersi a questo punto, e se non ve 
lo  state  chiedendo  significa  che  fin  qui  non  avete  capito  un  cazzo.  Il 
padre di Tony per vivere ammazzava la gente.
Rocco  Pastello  passava  per  essere  a  quell’epoca  il  più  stimato  e 
rispettato sicario di Cosa Nostra sulla costa orientale.
In questo campo, come si può immaginare, è molto difficile raccogliere 
notizie certe, perché la gente tende a tenere la bocca chiusa oggi per 
non  doverla  poi  chiudere  per  sempre  domani,  ma  si  dice  che  Rocco 
Pastello  in  più  di  un’occasione  fosse  stato  chiamato  su  a  Chicago  dal 
vecchio Al per sbrigare un paio di faccende ingarbugliate che coi suoi 
ragazzi non era riuscito a sistemare, e sempre, pare, con ottimi risultati, 
perché  a  Natale  ogni  anno  arrivava  una  grande  cesta  di  provole, 
peperoni  sott’olio  e  playstation  a  molla,  con  un  bigliettino  che 
invariabilmente diceva: “Con stima e riconoscenza, Alphonse”.
Quella  dei  Pastello  era,  se  proprio  vogliamo,  una  autentica,  sana  e 
americana vocazione familiare, tanto che anche lo zio di Tony e fratello 
minore  di  Rocco,  lo  zio  Paul  Pastello,  per  un  certo  periodo  aveva 
esercitato  con  buoni  risultati  la  professione  di  sicario,  fino  a  che  non 
era  stato  incastrato  per  aver  preso  il  vezzo  di  lasciare  sul  luogo  del 
delitto, a mo’ di firma, un casino di impronte digitali.
“Non  parlarmi  di  Paul,  quel  coglione!  Se  ci  penso...”  diceva  sempre 
suo padre le sere che dopo il lavoro gli pigliava un languore nostalgico 
e strano.
Sul suo letto di morte Rocco Pastello, che l’aveva fregato un tumore ai 
polmoni  da  gran  fumatore,  si  era  fatto  promettere  dall’unico  figlio 
maschio ed erede, Anthony Mario Pastello detto Tony, diciassette anni 
allora  appena  compiuti,  che  non  avrebbe  lasciato  cadere  nel  nulla  la 
tradizione  di  famiglia,  e  che  avrebbe  continuato  sulle  orme  del  padre 
ad esercitare l’onorata professione di sicario e assassino a contratto, e 
dopo avergli affidato una 44 lucida, con una gran scatarrata era andato 
a vedere che cosa ci attende al di là del velo oscuro.
La  morte  del  padre  lasciò  il  ragazzo  Tony  Pastello  in  uno  stato  di 
profonda angoscia per quella promessa che il genitore gli aveva estorto 
negli  ultimi  istanti  prima  di  andarsene,  quando  nessun  figlio 
rifiuterebbe  mai  quell’estremo  conforto  a  un  padre  morente.  Tony  in 
realtà  non  ne  voleva  sapere  di  ammazzare  nessuno,  sentiva  di  non 
essere  nato  per  quella  vita,  e  bastava  anche  solo  il  tocco  dell’acciaio 
freddo della pistola ereditata dal padre a dargli un brivido di ribrezzo e 
repulsione. Pensò allora di confidarsi con la madre.
Rosa  Pastello  era  un  donnino  tenue,  con  un’anima  sottile, 
profondamente comprensiva e sensibile, e di fronte ai turbamenti del 
figlio lo confortò con questa unica semplice frase: “Fai come ti ha detto 
tuo padre e non rompere i coglioni, cazzo!” poi tornò a rimestare nel 
pentolone del ragù.
Il  mattino  seguente  vide  dunque  il  povero  Tony  a  testa  bassa,  con  la 
morte  nel  cuore  e  in  tasca  la  pistola  del  padre  che  sembrava  pesare 
quanto una locomotiva, recarsi a trovare Don Carmine, che era allora il 
capo indiscusso di Cosa Nostra per la zona di Red Hook, ed era stato il 
principale datore di lavoro di Rocco Pastello.
Don Carmine gestiva come attività di copertura un negozio di barbiere 
su  Van  Brunt  street,  di  fianco  al  ristorante  di  pesce.  Dal  negozio  Don 
Carmine  governava  il  suo  regno,  stava  tutto  il  giorno  lì  dentro.  Nel 
negozio dava udienza a chi veniva con una supplica, a chi portava un 
problema  da  risolvere  o  un  affare  da  proporre,  e  chiunque  si 
presentasse,  per  avere  diritto  di  parlare  doveva  sedere  sulla  poltrona 
girevole mentre Don Carmine in persona gli faceva i capelli. Era un suo 
vezzo, ci teneva, pur essendo con buona probabilità il peggior barbiere 
del nuovo mondo. In ogni caso nessuno si poteva sottrarre, e alla fine 
Don  Carmine  riponeva  le  forbici,  scuoteva  i  capelli  tagliati 
dall’asciugamano e prima di presentare la sua soluzione o emettere la 
sua  sentenza,  faceva  passare  uno  specchio  dietro  la  vostra  nuca  in 
modo da farvi vedere come era venuto il taglio, e vi chiedeva: “Piace? 
Soddisfatto?” e voi, come tutti quelli che si sedevano sulla poltrona di 
Don Carmine, vi sareste guardati allo specchio quella testa sconciata di 
ciuffi  di  peli  sparati  alla  rinfusa  e  avreste  annuito  dicendo:  “Ma  che 
meraviglia  Don  Carmine!  Un  artista  siete!  Che  taglio  moderno!  Una 
roba così neanche in Europa!”
Tony entrò nel negozio di barbiere di Don Carmine facendo suonare il 
campanello  sulla  porta.  Aveva  indossato  l’unica  giacca  che  possedeva, 
che era stata di suo padre, e la sera prima aveva avuto l’accortezza di 
farsi tagliare i capelli cortissimi da una delle sorelle per evitare le forbici 
del padrino, pettinandoli all’indietro tutti belli unti di brillantina.
Il  padrino  stava  facendo  la  barba  a  un  tizio,  che  sembrava  già  uno  di 
quei gatti spelacchiati che ogni tanto i ragazzi prendevano nei vicoli tra 
i palazzi.
“Don Carmine”, aveva detto Tony, “le porto i miei rispetti, sono venuto 
ad offrirle i miei servizi, come promisi a mio padre in punto di morte.”
Don Carmine aveva detto qualche parola di circostanza per esprimere 
tutto  il  suo  dispiacere  per  la  dipartita  di  quello  che,  a  suo  dire, 
considerava non solo un valido collaboratore, ma un autentico e fedele 
amico,  e  aveva  poi  ringraziato  il  giovane  Tony  per  la  devozione 
dimostrata  per  la  famiglia  e  per  la  tradizione.  Aveva  poi  aperto  un 
cassetto, e ne aveva estratto una busta che aveva poi consegnato a Tony 
dicendogli: “Mi raccomando, un lavoro pulito”.
Nella busta c’era una fotografia. Era un tipo che Tony conosceva bene, 
perché  faceva  il  panettiere  appena  un  po’  più  in  su,  all’angolo  tra  la 
Columbia  e  Hamilton.  Non  aveva  idea  di  cosa  potesse  avere  fatto  per 
meritare  le  attenzioni  di  Don  Carmine,  ma  non  aveva  molta 
importanza, perché ormai era incastrato per bene, e non aveva scelta. 
Doveva fare quello che tutti si aspettavano da lui. Con un sospiro mise 
la  busta  nella  tasca  interna  della  giacca,  controllò  che  il  pesante 
revolver del padre fosse carico, e si diresse verso la panetteria.
Quella sera, verso l’orario di chiusura, Tony era poi passato di nuovo al 
negozio di barbiere. Aveva lo sguardo stanco e trascinava un po’ i piedi.
Don Carmine stava seduto sulla poltrona girevole e leggeva un vecchio 
numero di Hitokoto di prima della guerra, mentre il ragazzo di bottega 
spazzava i capelli tagliati dal pavimento.
“Allora?” aveva detto vedendo entrare Tony, “Hai pensato a quando fare 
il lavoro?”
“Già fatto”, aveva detto Tony.
Don  Carmine  lo  aveva  guardato  con  una  ammirazione  sorniona:  “Già 
fatto? E dimmi un po’: lavoro pulito?”
“Pulitissimo, non ne sentirete più neanche parlare.”
Il padrino gli aveva fatto un sorrisetto compiaciuto e gli aveva allungato 
un rotolo di banconote legato con un elastico. “Torna domani”, aveva 
detto.
In  poco  tempo  la  fama  di  Tony  Pastello  come  sicario  aveva  superato 
quella di suo padre.
Era preciso, rapido e silenzioso, e gli affidavano volentieri ogni tipo di 
contratto,  sicuri  di  poter  sempre  contare  su  un  lavoro  pulito  e  ben 
fatto.
La gente di cui si occupava Tony infatti spariva letteralmente dalla faccia 
della terra senza lasciare traccia, come se l’avessero rapita gli alieni.
Perché va detto che sì, nel campo concorrenza ce n’era, ma erano più 
che  altro  sicari  sciatti  che  facevano  lavori  poco  eleganti.  Efficaci,  non 
dico di no, se piace il genere... ma quando poi dopo una settimana un 
corpo  affiorava  dalla  baia  tutto  blu  e  gonfio  di  gas  putridi,  che 
bisognava  sgonfiarlo  infilandogli  un  tubo  nel  didietro,  o  quando  uno 
spazzino si imbatteva in un sacco della spazzatura pieno di gambe e di 
braccia infilate dentro alla rinfusa, o se un agente di pattuglia scivolava 
in  un  vicolo  su  un  merdaio  indecoroso  di  pozze  di  sangue,  non  era 
mica  una  bella  roba  quella  lì,  e  si  rischiava  anche  di  fare  delle  gran 
brutte figure.
Con  Tony  però  era  garantito  che  queste  cose  non  succedevano,  Tony 
Pastello  era  un  tipo  raffinato:  dei  suoi  clienti  non  rispuntava  mai 
neppure  un  ossicino  piccolo  piccolo,  neanche  una  falange,  un  dente, 
una di quelle pellicine che crescono di fianco alle unghie, niente.
E  quando  gli  chiedevano  come  facesse,  qual  era  il  suo  segreto 
insomma, lui faceva così, un sorrisino di traverso, un’alzata di spalle e 
poi faceva finta di niente e se lo teneva per sé.
Sua  madre,  ça  va  sans  dire,  era  molto  fiera  del  suo  Tony  Toniuzzo 
ammazzasette,  fiera  come  solo  una  madre  italiana,  e  non  mancava  di 
ripeterglielo ogni volta che lui l’andava a trovare.
“Stamattina al mercato”, gli diceva, “ho incontrato la signora Abbagnale, 
com’è diventata grassa! Ma lo sai che la figlia la dà via in giro come un 
volantino pubblicitario? Comunque, la cicciona mi fa, mi ha detto: ‘Ma 
lo sa che il marito della Russo, quella che fa la levatrice, è sparito nel 
nulla?  Non  se  ne  sa  più  niente  da  tre  settimane!  Non  ci  sarà  mica  lo 
zampino  del  suo  Tony,  eh?’.  Così  orgogliosa  mi  sono  sentita  figliuzzo 
mio  bello!  E  dire  che  tu  pensavi  di  non  essere  portato!  Tu  che  volevi 
vendere fiori! Ma te lo immagini? Ma io a tutti l’avevo detto, il mio Tony 
è un killer nato e sputato! Tale e quale a suo padre è! Se lui ti vedesse 
ora!”
Tony Pastello allora si incupiva, e finiva di lavare i piatti senza dire una 
parola.
Il quartiere poco a poco gli era venuto a noia, anche perché ormai non 
poteva fare un passo senza incontrare amici o parenti di quelli che lui 
aveva  fatto  sparire  per  sempre.  Così,  grazie  al  fatto  di  essere  un 
professionista  apprezzato  e  piuttosto  ricercato,  aveva  messo  da  parte 
una  discreta  somma,  con  la  quale  si  era  comprato  un’automobile 
elegante  e  un  vecchio  caseggiato  di  pietra  grigia  dall’altra  parte  della 
città, oltre Manhattan e il Bronx, dove le rive del fiume sono più alte, e 
dalla casa si vedeva scorrere l’Hudson giù in basso, con i battelli che lo 
risalivano  diretti  verso  il  canale  Erie  e  i  grandi  laghi,  o  scendevano 
lungo la corrente verso l’IKEA.
Era  lì  che  Tony  Pastello  si  rifugiava  ogni  volta  che  il  lavoro  glielo 
permetteva,  era  il  suo  buen  retiro,  il  suo  Puerto  Escondido,  la  sua 
Shangri­La, e l’aveva chiamato “Palazzo Paradiso”.
“Com’è che l’hai chiamato così?” aveva voluto sapere Don Carmine una 
volta che erano venuti in argomento.
“Perché  ci  sto  da  dio  Don  Carmine”,  aveva  risposto  Tony  Pastello 
sorridendo, e ogni sera salutava tutti e diceva: “Ci vediamo domani, io 
vado su al Paradiso”.
Le  cose  andavano  avanti  così,  come  un  treno  su  un  binario:  Tony 
riceveva  un  contratto,  la  persona  della  fotografia  scompariva  per 
sempre, il cliente era soddisfatto e pagava, gli affari prosperavano per 
tutti  e  Tony  ogni  volta  che  poteva,  andava  su  al  Paradiso  a  godersi  la 
vita.
Un giorno a Tony arrivò la notizia che Don Carmine gli voleva parlare 
perché pare avesse un lavoro speciale da affidargli.
Arrivato al negozio di barbiere lo trovò che stava facendo lo scalpo a un 
tizio  che  era  andato  a  chiedergli  qualche  favore.  Il  tizio  faceva  un 
sorrisino  tirato  guardando  le  forbici  maldestramente  maneggiate  dal 
padrino che gli facevano volare ciuffi di capelli a caso qua e là.
“Tony,  abbiamo  un  problema”,  gli  aveva  detto  Don  Carmine  con  uno 
stuzzicadenti tra le labbra vedendolo entrare.
“E io sono qui per risolverlo Don Carmine, mi dica”, aveva detto Tony 
ostentando sicurezza e professionalità.
“Ti  ricordi  il  tuo  primo  lavoro?”  gli  aveva  chiesto  allora  il  padrino 
sforbiciando senza criterio il malcapitato.
“Il panettiere? Certo che mi ricordo Don Carmine, il primo lavoro non 
si scorda mai.”
“Il fatto è che la figlia del grandissimo cornuto non si è mai rassegnata 
alla scomparsa del padre, e va in giro a fare un sacco di domande. La 
cosa potrebbe diventare imbarazzante.”
“Capisco Don Carmine”, aveva detto Tony Pastello.
“Credo  sia  meglio  che  te  ne  occupi  tu  Tony”,  aveva  concluso  Don 
Carmine. “Com’è il taglio? Soddisfatto?”
Il poveretto seduto sulla poltrona faceva dei gran cenni affermativi con 
la testa. Sembrava che avesse avuto una bruttissima malattia.
Chi  avesse  visto  Tony  Pastello  uscire  dal  negozio  di  barbiere  avrebbe 
detto che era una persona molto diversa da quel giovanotto allegro che 
era entrato poco prima.
Rimase  a  lungo  pensieroso  sul  marciapiede,  poi  si  avviò 
improvvisamente come se avesse ad un tratto preso una decisione.
La  ragazza  dopo  la  scomparsa  del  padre  aveva  dovuto  prendere  in 
mano  la  gestione  della  panetteria,  e  si  alzava  tutte  le  mattine  prima 
dell’alba  per  andare  ad  accendere  il  forno  e  ad  impastare  michette  e 
sfilatini  per  la  giornata,  così  usciva  di  casa  e  si  incamminava  verso  il 
negozio.
Le strade nelle città possono essere molto vuote nell’ora che viene tra 
la notte e il giorno, ed è quella l’ora di Tony Pastello.
Aveva atteso la giovane nascosto in un vicolo a metà strada tra la casa di 
lei e la panetteria, e al suo arrivo aveva fatto un passo fuori dall’ombra 
impugnando la pistola di suo padre.
La  ragazza  dopo  un  primo  momento  di  stupore  aveva  capito  e  aveva 
chinato  il  capo:  “Allora  è  questo  che  è  successo  a  papà.  Lo  avevo 
pensato, ma non ero sicura”.
“Eh,  sì”,  aveva  detto  Tony  Pastello,  e  aveva  teso  la  pistola  verso  la 
ragazza.
Lei aveva fatto un gesto istintivo alzando le braccia come per ripararsi 
e... 
“PUM”, aveva fatto Tony con la bocca, poi aveva abbassato l’arma.
La ragazza che era rimasta paralizzata dal terrore aspettando un colpo 
che non arrivava, aveva alzato la testa e lo aveva guardato. Tony Pastello 
sorrideva.
“Tutto qui?” aveva balbettato la ragazza incredula. 
“Sì”, aveva detto Tony, “tutto qui. Vieni con me adesso.”
Aveva  preso  la  ragazza  per  il  braccio  e  l’aveva  gentilmente 
accompagnata verso la sua auto parcheggiata poco lontano.
La ragazza si muoveva come in un sogno, le gambe le si piegavano ad 
ogni passo e sembrava sempre sul punto di cadere.
Tony l’aveva aiutata mettendole un braccio attorno alla vita, poi le aveva 
aperto lo sportello e l’aveva fatta accomodare nel posto del passeggero.
Mentre attraversavano la città, la ragazza guardava fuori dal finestrino le 
strade immerse nel buio. Si sentiva come se avesse le orecchie piene di 
batuffoli  di  cotone,  e  delle  grosse  lacrime  avevano  cominciato  a 
correrle lungo le guance.
Solo  una  volta  aveva  guardato  verso  Tony.  Lui  guidava  sorridendo,  e 
fischiettava un motivo che la ragazza non conosceva.
Passato il fiume Harlem avevano cominciato a salire per una collina. Poi 
l’auto si era fermata davanti a un palazzo di pietra grigia con un sacco 
di finestre.
“Benvenuta  in  Paradiso”,  aveva  detto  Tony  Pastello  mentre  apriva  lo 
sportello e l’aiutava a scendere.
“Non  capisco,  dove  siamo?”  aveva  detto  la  ragazza,  ma  in  quel 
momento un uomo era comparso sulla porta e le aveva fatto un cenno 
di saluto.
La  ragazza  aveva  guardato  per  un  momento  l’uomo  con  l’espressione 
più meravigliata del mondo, poi aveva gridato: “Papà!” e si era lanciata 
tra le sue braccia.
Tony li guardava con le mani in tasca, sorridendo.
Più tardi, mentre bevevano un tè seduti nella grande cucina di Palazzo 
Paradiso,  Tony  Pastello  aveva  raccontato  alla  ragazza  come  nel 
momento  stesso  in  cui  aveva  puntato  la  pistola  contro  suo  padre, 
avesse  avuto  la  più  assoluta  certezza  che  nella  sua  vita  in  realtà  non 
sarebbe mai stato capace di uccidere nessuno.
Qualunque  cosa  pensasse  sua  madre,  e  a  dispetto  di  ogni  promessa 
fatta a suo padre, Tony Pastello non sarebbe stato né un sicario, né un 
killer.
“Si vedeva subito che eri un tipo troppo delicato per questo mestiere 
Tony  Pastello”,  aveva  detto  il  padre  della  ragazza  versando  a  tutti 
un’altra tazza di tè.
Rimaneva allora il problema di come cavarsi d’impaccio senza che poi 
qualcun  altro  magari  si  occupasse  lui  del  lavoro  facendo  finire  anche 
Tony dalla parte sbagliata di un revolver.
Si doveva fare in fretta, e aveva fatto l’unica cosa che gli era venuta in 
mente.
Così  aveva  spiegato  la  situazione  al  panettiere  e  poi  l’aveva  portato  a 
casa  di  sua  madre  e  l’aveva  nascosto  in  cantina.  Ogni  sera,  dopo  che 
Rose  Pastello  era  andata  a  dormire  gli  portava  giù  la  cena,  con  la 
raccomandazione di non farsi sentire da nessuno, e la mattina, prima di 
andare al lavoro, gli lasciava caffelatte e brioche.
Era andato avanti così, portandosi a casa il lavoro per così dire, fino a 
quando  la  cantina  della  casa  di  sua  madre  era  diventata  più  affollata 
della spiaggia di Coney Island ad Agosto, e allora aveva comprato quella 
grande casa, abbastanza lontana dal quartiere perché a nessuno venisse 
voglia di andare a curiosare, e abbastanza grande da contenere un bel 
po’ di gente.
L’aveva chiamata Paradiso perché era lì che finivano tutti i suoi morti.
“E  ci  stiamo  un  gran  bene”,  aveva  detto  il  panettiere  alla  figlia  senza 
lasciarle la mano nemmeno per un istante, “come un vero paradiso sai? 
E’ un posto tranquillo, ti piacerà. Ognuno di noi ha una bella stanza, si 
vede  il  fiume,  ci  sono  la  sala  da  musica,  il  biliardo,  il  riscaldamento 
centralizzato! Tony si occupa di tutto, fa la spesa, paga i conti, e noi gli 
diamo una mano come meglio possiamo. Io ad esempio faccio pane e 
pasticcini  per  tutti.  C’è  un  calzolaio,  un  medico,  un  cuoco,  un  intero 
quartetto jazz che aveva fatto uno sgarbo a Don Carmine. L’anno scorso 
due  degli  ospiti  si  sono  innamorati,  e  siccome  c’è  anche  un  pastore 
metodista,  si  sono  sposati  e  abbiam  fatto  una  bella  festa  in  giardino, 
con la musica e tutto. E adesso che ci sei anche tu figlia mia, adesso sì 
che questo posto sa di Paradiso. Sapessi quanto mi sei mancata”. Padre 
e figlia si abbracciarono di nuovo mentre Tony li guardava commosso. 
Si sentiva bene come se avesse avuto quel negozio di fiori a Manhattan.
In quel momento un omino con dei baffi da contabile si era affacciato 
alla porta della cucina.
“Ah,  ciao  Tony”,  aveva  detto,  “sei  tornato.  Chi  è  la  signorina?  Senti,  il 
cesso  del  secondo  piano  perde  di  nuovo.  Quand’è  che  ammazzi  un 
idraulico?”


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