Arto Humo
Il paradiso di Tony Pastello
Tony Pastello era un tipo delicato.
Era entrato molto delicatamente in questo mondo quando sua madre
Rose lo aveva partorito senza sforzo, ottavo figlio e primo maschio
dopo sette sorelle, mentre su una poltrona di parrucchiera di Court
Street a Brooklyn, nella primavera del ‘37, si faceva la permanente con
un attrezzo diabolico che assomigliava molto a una mungitrice
automatica.
Il parto era filato via così liscio che a Rose era sembrato quasi uno
scherzo. Non le aveva strappato neppure un gridolino, e tutto quello
che si era concessa era stato un ‘oh’ di sorpresa, e poi se ne era quasi
subito dimenticata, tanto che la signorina Abbagnale, la proprietaria del
salone, l’aveva dovuta rincorrere mentre già si dirigeva verso l’uscita
gridando: “Signora, ha lasciato questo!” e le aveva allungato il piccolo
Tony tutto polveroso di borotalco e profumato, avvolto nelle pagine
centrali di una copia di Vanity Fair del Maggio 1935, nel quale T.S. Eliot
presentava una sua versione all’acqua di rose delle melanzane alla
parmigiana.
Da piccolo Tony si sentiva spesso molto diverso dagli altri bambini di
Red Hook, quel pezzo di Brooklyn che dà sulla Upper Bay dove i
Pastello vivevano in un piccolo cottage di Conover Street. Non provava
nessun piacere ad esempio a prendere parte a quello che i suoi
coetanei del quartiere sembravano giudicare il maggior sollazzo del
mondo e che consisteva, per dirla semplice, nel vagare in un branco
randagio per le strade a prendere per il culo gli immigrati Norvegesi
ubriachi che popolavano la zona e a sollevare le sottane alle loro donne
solide e poppose.
Tony lo trovava molto volgare e anche stupido, pericoloso in misura
non trascurabile per dei ragazzini, perché provocare dei marinai
norvegesi disoccupati e dediti all’alcol può avere conseguenze serie, e
si narrava con un brivido di certe aringhe affumicate finite in posti dove
non si dovrebbero avventurare se non per propria libera scelta.
A Tony invece piaceva parecchio camminare da solo fino in fondo a
Conover Street, quando sfocia nel porto, e poi lungo le banchine dove
arrivavano i barconi provenienti perlopiù dal lago Erie per rifornire di
pelli di castoro sintetico e truciolare scadente l’IKEA che c’è lì dietro
l’angolo.
Si spingeva allora fin oltre il molo 41, passato il magazzino Liberty, che
si chiama così perché da quel punto si vede, dall’altra parte della baia,
la Statua della Libertà, e un po’ più in là, nella bruma di quell’ultima
lingua di Atlantico, appare l’estremità sud di Manhattan, con i
grattacieli dalle punte luccicanti di rame e di zinco e acciaio lucidato a
specchio da certi inservienti negri che si calano legati a delle corde
dalle guglie più alte e ci dan giù di olio di gomito e di un prodotto
americano simile al Sidol, ma molto più togo e potente, che nella luce
azzurra e d’oro del tramonto li fa brillare come i pinnacoli del regno di
Oz.
Come incantato, per lunghe ore il bimbo Pastello restava a guardare,
oltre il porto, quel mondo di luce, e si immaginava una vita a sua
misura, da vivere domani e fatta come piaceva a lui, cioè splendente e
raffinata nel cuore vivo della città, quell’isola d’oro dove su Park
Avenue avrebbe aperto un salon de beauté, o un negozio di fiori
speciale très chic, nel quale le signore eleganti della New York come si
deve sarebbero arrivate in auto lussuose velate di Chanel a comprare a
manciate dei fiori magnifici e rari, che lui, e lui solo, avrebbe importato
dal Siam e dal Giappone, e da certe minuscole isole oscure intorno a
Sumatra, dove su alberi enormi più antichi del mondo, a succhiarne la
linfa come un vampiro diafano, si trova un’orchidea così delicata da
essere fin trasparente, che va maneggiata con un guanto sottile sottile
tessuto di fili di seta di ragno.
Altre volte si vedeva come un benevolo maestro di eleganza, raffinato e
tenue come mai nessuno prima di lui, portare cravatte a sbuffo leggere
e tenere salotto in un attico enorme affacciato sul parco, con i divani
bianchi e i tavolini di cristallo, e teli di seta rosa antico alle pareti,
mentre con un lungo bocchino di avorio tra le dita guardava di sotto,
da ampie vetrate, la gente formica sciamare giù in strada.
Una cameriera con la cresta avrebbe servito allora litri di tè cinese
delicato in porcellane finissime con minuscoli fiori turchesi sul fondo, e
lui lo avrebbe sorseggiato col mignolo dritto e vaporosa voluttà,
insieme ai suoi sceltissimi amici del mondo splendente: architetti di
grido dell’una e dell’altra sponda, contesse, pittori di fama, ragazze di
buona famiglia con moltissimi denti bianchi, alcuni ben selezionati
critici d’arte, salaci e pungenti, i sarti più in voga e le attrici di
Broadway dai boccoli d’oro.
Così si passava i pomeriggi il bimbo Tony: sospirando seduto sul bordo
delle acque nere della baia.
Mentre lui sognava quel suo domani a tinte leggere però, il dio del caso
infame che regola le cose del mondo macinava per lui ben altri
progetti.
E’ cosa nota infatti che, se vostro padre ha una panetteria, ci sia una
probabilità piuttosto alta che prima o poi finiate all’alba, sudati e
sporchi di farina tipo 0, a infornare pagnotte per tutto il quartiere. Se
invece in famiglia, mettiamo, si praticasse il nobile mestiere della legge
e foste nati nella parte sbagliata della città, ve lo si darebbe venti a uno
che un giorno vi sveglierete, bacerete sulla guancia una moglie grassa e
malvestita e dopo un caffè bruciacchiato bevuto in piedi e in fretta, vi
dirigerete verso un ufficetto malmesso, col vostro nome scritto a lettere
maiuscole da un pittore di insegne sul vetro della porta, dove il vostro
tempo passerà tra codici polverosi, giorno dopo giorno, a studiare
come difendere per quattro soldi dei ladri di polli.
Non nascondiamocelo: è così che in genere vanno le cose, e sottrarsi a
questo meccanismo è molto più complicato e difficile di quanto si
pensi nell’ingenuità felice dell’infanzia, dato che spesso dobbiamo
seguire la corrente, e non sempre il vento gira dalla parte giusta,
almeno non da quella che avremmo voluto io, voi e il piccolo Tony
Pastello seduto sul bordo.
“E il padre di Tony?” verrebbe da chiedersi a questo punto, e se non ve
lo state chiedendo significa che fin qui non avete capito un cazzo. Il
padre di Tony per vivere ammazzava la gente.
Rocco Pastello passava per essere a quell’epoca il più stimato e
rispettato sicario di Cosa Nostra sulla costa orientale.
In questo campo, come si può immaginare, è molto difficile raccogliere
notizie certe, perché la gente tende a tenere la bocca chiusa oggi per
non doverla poi chiudere per sempre domani, ma si dice che Rocco
Pastello in più di un’occasione fosse stato chiamato su a Chicago dal
vecchio Al per sbrigare un paio di faccende ingarbugliate che coi suoi
ragazzi non era riuscito a sistemare, e sempre, pare, con ottimi risultati,
perché a Natale ogni anno arrivava una grande cesta di provole,
peperoni sott’olio e playstation a molla, con un bigliettino che
invariabilmente diceva: “Con stima e riconoscenza, Alphonse”.
Quella dei Pastello era, se proprio vogliamo, una autentica, sana e
americana vocazione familiare, tanto che anche lo zio di Tony e fratello
minore di Rocco, lo zio Paul Pastello, per un certo periodo aveva
esercitato con buoni risultati la professione di sicario, fino a che non
era stato incastrato per aver preso il vezzo di lasciare sul luogo del
delitto, a mo’ di firma, un casino di impronte digitali.
“Non parlarmi di Paul, quel coglione! Se ci penso...” diceva sempre
suo padre le sere che dopo il lavoro gli pigliava un languore nostalgico
e strano.
Sul suo letto di morte Rocco Pastello, che l’aveva fregato un tumore ai
polmoni da gran fumatore, si era fatto promettere dall’unico figlio
maschio ed erede, Anthony Mario Pastello detto Tony, diciassette anni
allora appena compiuti, che non avrebbe lasciato cadere nel nulla la
tradizione di famiglia, e che avrebbe continuato sulle orme del padre
ad esercitare l’onorata professione di sicario e assassino a contratto, e
dopo avergli affidato una 44 lucida, con una gran scatarrata era andato
a vedere che cosa ci attende al di là del velo oscuro.
La morte del padre lasciò il ragazzo Tony Pastello in uno stato di
profonda angoscia per quella promessa che il genitore gli aveva estorto
negli ultimi istanti prima di andarsene, quando nessun figlio
rifiuterebbe mai quell’estremo conforto a un padre morente. Tony in
realtà non ne voleva sapere di ammazzare nessuno, sentiva di non
essere nato per quella vita, e bastava anche solo il tocco dell’acciaio
freddo della pistola ereditata dal padre a dargli un brivido di ribrezzo e
repulsione. Pensò allora di confidarsi con la madre.
Rosa Pastello era un donnino tenue, con un’anima sottile,
profondamente comprensiva e sensibile, e di fronte ai turbamenti del
figlio lo confortò con questa unica semplice frase: “Fai come ti ha detto
tuo padre e non rompere i coglioni, cazzo!” poi tornò a rimestare nel
pentolone del ragù.
Il mattino seguente vide dunque il povero Tony a testa bassa, con la
morte nel cuore e in tasca la pistola del padre che sembrava pesare
quanto una locomotiva, recarsi a trovare Don Carmine, che era allora il
capo indiscusso di Cosa Nostra per la zona di Red Hook, ed era stato il
principale datore di lavoro di Rocco Pastello.
Don Carmine gestiva come attività di copertura un negozio di barbiere
su Van Brunt street, di fianco al ristorante di pesce. Dal negozio Don
Carmine governava il suo regno, stava tutto il giorno lì dentro. Nel
negozio dava udienza a chi veniva con una supplica, a chi portava un
problema da risolvere o un affare da proporre, e chiunque si
presentasse, per avere diritto di parlare doveva sedere sulla poltrona
girevole mentre Don Carmine in persona gli faceva i capelli. Era un suo
vezzo, ci teneva, pur essendo con buona probabilità il peggior barbiere
del nuovo mondo. In ogni caso nessuno si poteva sottrarre, e alla fine
Don Carmine riponeva le forbici, scuoteva i capelli tagliati
dall’asciugamano e prima di presentare la sua soluzione o emettere la
sua sentenza, faceva passare uno specchio dietro la vostra nuca in
modo da farvi vedere come era venuto il taglio, e vi chiedeva: “Piace?
Soddisfatto?” e voi, come tutti quelli che si sedevano sulla poltrona di
Don Carmine, vi sareste guardati allo specchio quella testa sconciata di
ciuffi di peli sparati alla rinfusa e avreste annuito dicendo: “Ma che
meraviglia Don Carmine! Un artista siete! Che taglio moderno! Una
roba così neanche in Europa!”
Tony entrò nel negozio di barbiere di Don Carmine facendo suonare il
campanello sulla porta. Aveva indossato l’unica giacca che possedeva,
che era stata di suo padre, e la sera prima aveva avuto l’accortezza di
farsi tagliare i capelli cortissimi da una delle sorelle per evitare le forbici
del padrino, pettinandoli all’indietro tutti belli unti di brillantina.
Il padrino stava facendo la barba a un tizio, che sembrava già uno di
quei gatti spelacchiati che ogni tanto i ragazzi prendevano nei vicoli tra
i palazzi.
“Don Carmine”, aveva detto Tony, “le porto i miei rispetti, sono venuto
ad offrirle i miei servizi, come promisi a mio padre in punto di morte.”
Don Carmine aveva detto qualche parola di circostanza per esprimere
tutto il suo dispiacere per la dipartita di quello che, a suo dire,
considerava non solo un valido collaboratore, ma un autentico e fedele
amico, e aveva poi ringraziato il giovane Tony per la devozione
dimostrata per la famiglia e per la tradizione. Aveva poi aperto un
cassetto, e ne aveva estratto una busta che aveva poi consegnato a Tony
dicendogli: “Mi raccomando, un lavoro pulito”.
Nella busta c’era una fotografia. Era un tipo che Tony conosceva bene,
perché faceva il panettiere appena un po’ più in su, all’angolo tra la
Columbia e Hamilton. Non aveva idea di cosa potesse avere fatto per
meritare le attenzioni di Don Carmine, ma non aveva molta
importanza, perché ormai era incastrato per bene, e non aveva scelta.
Doveva fare quello che tutti si aspettavano da lui. Con un sospiro mise
la busta nella tasca interna della giacca, controllò che il pesante
revolver del padre fosse carico, e si diresse verso la panetteria.
Quella sera, verso l’orario di chiusura, Tony era poi passato di nuovo al
negozio di barbiere. Aveva lo sguardo stanco e trascinava un po’ i piedi.
Don Carmine stava seduto sulla poltrona girevole e leggeva un vecchio
numero di Hitokoto di prima della guerra, mentre il ragazzo di bottega
spazzava i capelli tagliati dal pavimento.
“Allora?” aveva detto vedendo entrare Tony, “Hai pensato a quando fare
il lavoro?”
“Già fatto”, aveva detto Tony.
Don Carmine lo aveva guardato con una ammirazione sorniona: “Già
fatto? E dimmi un po’: lavoro pulito?”
“Pulitissimo, non ne sentirete più neanche parlare.”
Il padrino gli aveva fatto un sorrisetto compiaciuto e gli aveva allungato
un rotolo di banconote legato con un elastico. “Torna domani”, aveva
detto.
In poco tempo la fama di Tony Pastello come sicario aveva superato
quella di suo padre.
Era preciso, rapido e silenzioso, e gli affidavano volentieri ogni tipo di
contratto, sicuri di poter sempre contare su un lavoro pulito e ben
fatto.
La gente di cui si occupava Tony infatti spariva letteralmente dalla faccia
della terra senza lasciare traccia, come se l’avessero rapita gli alieni.
Perché va detto che sì, nel campo concorrenza ce n’era, ma erano più
che altro sicari sciatti che facevano lavori poco eleganti. Efficaci, non
dico di no, se piace il genere... ma quando poi dopo una settimana un
corpo affiorava dalla baia tutto blu e gonfio di gas putridi, che
bisognava sgonfiarlo infilandogli un tubo nel didietro, o quando uno
spazzino si imbatteva in un sacco della spazzatura pieno di gambe e di
braccia infilate dentro alla rinfusa, o se un agente di pattuglia scivolava
in un vicolo su un merdaio indecoroso di pozze di sangue, non era
mica una bella roba quella lì, e si rischiava anche di fare delle gran
brutte figure.
Con Tony però era garantito che queste cose non succedevano, Tony
Pastello era un tipo raffinato: dei suoi clienti non rispuntava mai
neppure un ossicino piccolo piccolo, neanche una falange, un dente,
una di quelle pellicine che crescono di fianco alle unghie, niente.
E quando gli chiedevano come facesse, qual era il suo segreto
insomma, lui faceva così, un sorrisino di traverso, un’alzata di spalle e
poi faceva finta di niente e se lo teneva per sé.
Sua madre, ça va sans dire, era molto fiera del suo Tony Toniuzzo
ammazzasette, fiera come solo una madre italiana, e non mancava di
ripeterglielo ogni volta che lui l’andava a trovare.
“Stamattina al mercato”, gli diceva, “ho incontrato la signora Abbagnale,
com’è diventata grassa! Ma lo sai che la figlia la dà via in giro come un
volantino pubblicitario? Comunque, la cicciona mi fa, mi ha detto: ‘Ma
lo sa che il marito della Russo, quella che fa la levatrice, è sparito nel
nulla? Non se ne sa più niente da tre settimane! Non ci sarà mica lo
zampino del suo Tony, eh?’. Così orgogliosa mi sono sentita figliuzzo
mio bello! E dire che tu pensavi di non essere portato! Tu che volevi
vendere fiori! Ma te lo immagini? Ma io a tutti l’avevo detto, il mio Tony
è un killer nato e sputato! Tale e quale a suo padre è! Se lui ti vedesse
ora!”
Tony Pastello allora si incupiva, e finiva di lavare i piatti senza dire una
parola.
Il quartiere poco a poco gli era venuto a noia, anche perché ormai non
poteva fare un passo senza incontrare amici o parenti di quelli che lui
aveva fatto sparire per sempre. Così, grazie al fatto di essere un
professionista apprezzato e piuttosto ricercato, aveva messo da parte
una discreta somma, con la quale si era comprato un’automobile
elegante e un vecchio caseggiato di pietra grigia dall’altra parte della
città, oltre Manhattan e il Bronx, dove le rive del fiume sono più alte, e
dalla casa si vedeva scorrere l’Hudson giù in basso, con i battelli che lo
risalivano diretti verso il canale Erie e i grandi laghi, o scendevano
lungo la corrente verso l’IKEA.
Era lì che Tony Pastello si rifugiava ogni volta che il lavoro glielo
permetteva, era il suo buen retiro, il suo Puerto Escondido, la sua
ShangriLa, e l’aveva chiamato “Palazzo Paradiso”.
“Com’è che l’hai chiamato così?” aveva voluto sapere Don Carmine una
volta che erano venuti in argomento.
“Perché ci sto da dio Don Carmine”, aveva risposto Tony Pastello
sorridendo, e ogni sera salutava tutti e diceva: “Ci vediamo domani, io
vado su al Paradiso”.
Le cose andavano avanti così, come un treno su un binario: Tony
riceveva un contratto, la persona della fotografia scompariva per
sempre, il cliente era soddisfatto e pagava, gli affari prosperavano per
tutti e Tony ogni volta che poteva, andava su al Paradiso a godersi la
vita.
Un giorno a Tony arrivò la notizia che Don Carmine gli voleva parlare
perché pare avesse un lavoro speciale da affidargli.
Arrivato al negozio di barbiere lo trovò che stava facendo lo scalpo a un
tizio che era andato a chiedergli qualche favore. Il tizio faceva un
sorrisino tirato guardando le forbici maldestramente maneggiate dal
padrino che gli facevano volare ciuffi di capelli a caso qua e là.
“Tony, abbiamo un problema”, gli aveva detto Don Carmine con uno
stuzzicadenti tra le labbra vedendolo entrare.
“E io sono qui per risolverlo Don Carmine, mi dica”, aveva detto Tony
ostentando sicurezza e professionalità.
“Ti ricordi il tuo primo lavoro?” gli aveva chiesto allora il padrino
sforbiciando senza criterio il malcapitato.
“Il panettiere? Certo che mi ricordo Don Carmine, il primo lavoro non
si scorda mai.”
“Il fatto è che la figlia del grandissimo cornuto non si è mai rassegnata
alla scomparsa del padre, e va in giro a fare un sacco di domande. La
cosa potrebbe diventare imbarazzante.”
“Capisco Don Carmine”, aveva detto Tony Pastello.
“Credo sia meglio che te ne occupi tu Tony”, aveva concluso Don
Carmine. “Com’è il taglio? Soddisfatto?”
Il poveretto seduto sulla poltrona faceva dei gran cenni affermativi con
la testa. Sembrava che avesse avuto una bruttissima malattia.
Chi avesse visto Tony Pastello uscire dal negozio di barbiere avrebbe
detto che era una persona molto diversa da quel giovanotto allegro che
era entrato poco prima.
Rimase a lungo pensieroso sul marciapiede, poi si avviò
improvvisamente come se avesse ad un tratto preso una decisione.
La ragazza dopo la scomparsa del padre aveva dovuto prendere in
mano la gestione della panetteria, e si alzava tutte le mattine prima
dell’alba per andare ad accendere il forno e ad impastare michette e
sfilatini per la giornata, così usciva di casa e si incamminava verso il
negozio.
Le strade nelle città possono essere molto vuote nell’ora che viene tra
la notte e il giorno, ed è quella l’ora di Tony Pastello.
Aveva atteso la giovane nascosto in un vicolo a metà strada tra la casa di
lei e la panetteria, e al suo arrivo aveva fatto un passo fuori dall’ombra
impugnando la pistola di suo padre.
La ragazza dopo un primo momento di stupore aveva capito e aveva
chinato il capo: “Allora è questo che è successo a papà. Lo avevo
pensato, ma non ero sicura”.
“Eh, sì”, aveva detto Tony Pastello, e aveva teso la pistola verso la
ragazza.
Lei aveva fatto un gesto istintivo alzando le braccia come per ripararsi
e...
“PUM”, aveva fatto Tony con la bocca, poi aveva abbassato l’arma.
La ragazza che era rimasta paralizzata dal terrore aspettando un colpo
che non arrivava, aveva alzato la testa e lo aveva guardato. Tony Pastello
sorrideva.
“Tutto qui?” aveva balbettato la ragazza incredula.
“Sì”, aveva detto Tony, “tutto qui. Vieni con me adesso.”
Aveva preso la ragazza per il braccio e l’aveva gentilmente
accompagnata verso la sua auto parcheggiata poco lontano.
La ragazza si muoveva come in un sogno, le gambe le si piegavano ad
ogni passo e sembrava sempre sul punto di cadere.
Tony l’aveva aiutata mettendole un braccio attorno alla vita, poi le aveva
aperto lo sportello e l’aveva fatta accomodare nel posto del passeggero.
Mentre attraversavano la città, la ragazza guardava fuori dal finestrino le
strade immerse nel buio. Si sentiva come se avesse le orecchie piene di
batuffoli di cotone, e delle grosse lacrime avevano cominciato a
correrle lungo le guance.
Solo una volta aveva guardato verso Tony. Lui guidava sorridendo, e
fischiettava un motivo che la ragazza non conosceva.
Passato il fiume Harlem avevano cominciato a salire per una collina. Poi
l’auto si era fermata davanti a un palazzo di pietra grigia con un sacco
di finestre.
“Benvenuta in Paradiso”, aveva detto Tony Pastello mentre apriva lo
sportello e l’aiutava a scendere.
“Non capisco, dove siamo?” aveva detto la ragazza, ma in quel
momento un uomo era comparso sulla porta e le aveva fatto un cenno
di saluto.
La ragazza aveva guardato per un momento l’uomo con l’espressione
più meravigliata del mondo, poi aveva gridato: “Papà!” e si era lanciata
tra le sue braccia.
Tony li guardava con le mani in tasca, sorridendo.
Più tardi, mentre bevevano un tè seduti nella grande cucina di Palazzo
Paradiso, Tony Pastello aveva raccontato alla ragazza come nel
momento stesso in cui aveva puntato la pistola contro suo padre,
avesse avuto la più assoluta certezza che nella sua vita in realtà non
sarebbe mai stato capace di uccidere nessuno.
Qualunque cosa pensasse sua madre, e a dispetto di ogni promessa
fatta a suo padre, Tony Pastello non sarebbe stato né un sicario, né un
killer.
“Si vedeva subito che eri un tipo troppo delicato per questo mestiere
Tony Pastello”, aveva detto il padre della ragazza versando a tutti
un’altra tazza di tè.
Rimaneva allora il problema di come cavarsi d’impaccio senza che poi
qualcun altro magari si occupasse lui del lavoro facendo finire anche
Tony dalla parte sbagliata di un revolver.
Si doveva fare in fretta, e aveva fatto l’unica cosa che gli era venuta in
mente.
Così aveva spiegato la situazione al panettiere e poi l’aveva portato a
casa di sua madre e l’aveva nascosto in cantina. Ogni sera, dopo che
Rose Pastello era andata a dormire gli portava giù la cena, con la
raccomandazione di non farsi sentire da nessuno, e la mattina, prima di
andare al lavoro, gli lasciava caffelatte e brioche.
Era andato avanti così, portandosi a casa il lavoro per così dire, fino a
quando la cantina della casa di sua madre era diventata più affollata
della spiaggia di Coney Island ad Agosto, e allora aveva comprato quella
grande casa, abbastanza lontana dal quartiere perché a nessuno venisse
voglia di andare a curiosare, e abbastanza grande da contenere un bel
po’ di gente.
L’aveva chiamata Paradiso perché era lì che finivano tutti i suoi morti.
“E ci stiamo un gran bene”, aveva detto il panettiere alla figlia senza
lasciarle la mano nemmeno per un istante, “come un vero paradiso sai?
E’ un posto tranquillo, ti piacerà. Ognuno di noi ha una bella stanza, si
vede il fiume, ci sono la sala da musica, il biliardo, il riscaldamento
centralizzato! Tony si occupa di tutto, fa la spesa, paga i conti, e noi gli
diamo una mano come meglio possiamo. Io ad esempio faccio pane e
pasticcini per tutti. C’è un calzolaio, un medico, un cuoco, un intero
quartetto jazz che aveva fatto uno sgarbo a Don Carmine. L’anno scorso
due degli ospiti si sono innamorati, e siccome c’è anche un pastore
metodista, si sono sposati e abbiam fatto una bella festa in giardino,
con la musica e tutto. E adesso che ci sei anche tu figlia mia, adesso sì
che questo posto sa di Paradiso. Sapessi quanto mi sei mancata”. Padre
e figlia si abbracciarono di nuovo mentre Tony li guardava commosso.
Si sentiva bene come se avesse avuto quel negozio di fiori a Manhattan.
In quel momento un omino con dei baffi da contabile si era affacciato
alla porta della cucina.
“Ah, ciao Tony”, aveva detto, “sei tornato. Chi è la signorina? Senti, il
cesso del secondo piano perde di nuovo. Quand’è che ammazzi un
idraulico?”