Ab Normal
Il nuovo girone (the magic power of bones)

“Oh Giangi” faccio io, deciso ad aprire una discussione filosofica, una
di quelle che facciamo ogni tanto. In genere queste dissertazioni
prendono avvio in macchina, quando giriamo a zonzo in cerca di
qualcosa da fare. Ora, che non abbiamo neanche i soldi per la benzina,
siamo nel salotto della nonna. L’erba aiuta, allunga i pensieri oltre le
convenzioni e i confini materiali. Ci si muove in paesaggi mentali
personalizzati. In genere, le dissertazioni finiscono in un “boh” di
entrambi, una sorta di “zero a zero” tra noi e la logica delle cose. In
genere, queste dissertazioni non hanno senso.
“Oh Giangi!”
“Eh?”
“Senti qua: ma come sarebbe vivere senza ossa?”
“Senza tutte o solo alcune?”
“No, no, senza tutte...”
Giangi ride e nel farlo sputa la canna sopra il centrino del tavolo basso.
Ridiamo tutti e due, l’argomento è senz’altro mooolto interessante. Vale
la pena approfondire.
Una volta ripreso fiato, Giangi afferma che dovrebbe essere divertente.
Si sarebbe tipo dei polipi, o delle meduse.
“Ma fuori dall’acqua come fai? Ti ammosci” ribatto io, che guardo
sempre i documentari marini.
Lui mi guarda storto e ride ancora, scuote la testa.
“Ti ammosci sì, ma hai il potere di passare sotto le porte. Niente più
scasso.”
“Vero – annuisco – e poi non riusciremmo neppure a usarlo il piede
di porco, senza le ossa.”
“Giusto”.
“E se ti mettono in gaglioffa, passi in mezzo alle sbarre.”
“Sante parole...”
“Adesso si va al Policlinico e ce le facciamo togliere tutte... eh
Giangino?”
“Daboun...”
Nel ridere ancora ci strozziamo e ci contorciamo in tutte le direzioni,
totalmente disarticolati.
“Poi uno non avrebbe più bisogno della casa...basterebbe un cassetto,
ti fai ripiegare come un pigiama e buonanotte...”
“Ma a trombare?”
“Mica c’è l’osso nel pisello”, specifico io.
“Ah giusto, allora va bene...”
Rincominciamo a ridere, stavolta così forte, ma così forte, che inizio a
sentire qualcosa di grosso che mi spinge la bocca dello stomaco.
Faccio appena in tempo a dire “Giang...” che inizio a rigurgitare un
osso parecchio lungo, che sembra un femore, poi un altro e un altro
ancora, e infine altre ossa più piccole. Fa un male orribile, vedo che
anche il Giangi fa la stessa cosa, mentre il braccio destro gli si svuota e
penzola come un calzino.
Mi guardo le gambe e vedo solo due pantaloni senza forma, poi tutto
ruota, sento la testa come svanire fuori dalla bocca e poi c’è il buio.
Dopo quello che sembra un secolo riapro gli occhi. Non riesco a
ruotare la testa, non riesco a fare nessun gesto. Alla mia sinistra
intravedo l’involucro del Giangi, a terra. Sembra un costume di
carnevale, con attaccata la sua lunga gnagna brizzolata, il maglioncino
lerciognolo e i jeans strappati. La faccia è una maschera sgonfia di
gomma, lo sguardo allibito. Anch’io devo essere così. Ai lati scorgo le
mie braccia vuote, le dita che sembrano guanti hanno perso la canna,
rotolata a terra.
Non riusciamo a parlare perché non abbiamo più le mascelle né il resto
del cranio, ma solo una poltiglia disordinata di denti, naso senza forma,
guance puntellate di barba sfatta.
Mi esce solo un suono gutturale tutto soffocato, tipo “ao­ue­eee?”, che
starebbe per “Cazzo succedeeee?”.
Anche il Giangi risponde mugolando qualcosa che sta tra la bestemmia
e il ruttino.
D’un tratto si apre la porta d’ingresso, la nonna varca la soglia e giusto
il tempo di vederci, di dire “Ninì!” e di rimanere sconvolta che anche
dalla sua bocca parte un femore con una placca d’acciaio, seguito da
altre ossa, la stessa pioggia anatomica proprio degna di uno splatter. La
nonna si sgonfia in un batter d’occhio e il suo involucro di carne si
mischia alle ossa e alla spesa della Coop.
Poi il palazzo comincia a tremare forte, come mai si era sentito, il
pavimento si squarcia e tutto precipita verso il basso, in una voragine
buia. Mentre i nostri involucri cadono contorcendosi come lenzuoli,
insieme alle ossa, a pezzi di cemento, tubi e tegole, a sedie e divani e
alla nuova cucina economica che ho regalato alla nonna per Natale, si
alza dal fondo nero una luce tremolante, generata da quello che
sembra un largo cerchio infuocato.
“Onaaaa!” grido (che sta per “Nonna”), “Aniii!” (che sta per “Giangi”)
ma le mie deboli grida si perdono in un frastuono che sembra non
avere fine.
Poi, finalmente, la nostra caduta si interrompe e sobbalzando entriamo
in una sorta di orbita, circondati dal gigantesco perimetro di fuoco.
Non ci siamo solo noi: la marea degli involucri di carne, ossa e detriti
vari è sterminata e riempie tutto l’orizzonte piatto e in movimento di
quello che sembra un girone infernale spaziale.
Ora, va da sé che io, come anche il Giangi e la Nonna, l’Inferno della
Divina Commedia non l’ho mai letto, ma per punizione fui costretto a
imparare a memoria tutti i nomi dei vari Cerchi e Gironi o Bolge
quando frequentavo lo stesso anno delle superiori all’infinito,
bocciatura dopo bocciatura.
Limbo, Lussuriosi, Golosi, Avari e Prodighi, poi boh...poi
boh...Bestemmiatori,
Sodomiti
e
Usurai,
Ruffiani
e
Seduttori...poi...ovviamente i Ladri...
Insomma – penso mentre le mie braccia svolazzano come maniche di
camicia, schiaffeggiandomi i fianchi e la faccia rammollita – il Cerchio o
il Girone dei Disossati mica me lo ricordo... io e il Giangi dovremmo
essere in quello dei Ladri o dei Tossici (che non c’è), ma i Disossati...
“Benvenuti nel Girone dei Disossati!” esclama una voce nel buio...
“Ecco, a sam apost...”
“In questo luogo di pena e di rimorso giacciono coloro che in vita
furono degli smidollati, senza spina dorsale, incapaci di trovarsi un
lavoro serio e di tenerselo.”
La prima cosa che mi viene in mente è la Nonna, che tanto ha lavorato
in campagna: che ci fa lei qui? Che ci sia stato un errore, tipo le Cartelle
Pazze dell’Hera?
Provo a urlare qualcosa per protestare, ma il mio mugugno svanisce nel
caos dei detriti ultraterreni...
“Ora – continua la voce – siete destinati a divenire degli insaccati per i
Santi del Paradiso o, una volta tritati, del mangime per animali, oppure
componenti per cosmetici, perché anche in Paradiso la pelle si
secca...”
“Ma anche l’inferno si è industrializzato?” mi chiedo basito, mentre in
lontananza strane creature simili a demoni col camice bianco, tipo
Inalca, iniziano a disporre molli carcasse su rulli metallici.
Non mi resta, essere privo di forma e di forze, che riflettere sulle mie
colpe, su tutte le volte che non sono andato al Centro per l’Impiego,
mentendo alla cara Nonna.
Dopo un tempo indefinibilmente triste e lungo, mi accorgo che le mie
ossa tendono a passarmi davanti con una certa frequenza. Non so
come, le riconosco fra i detriti galleggianti. Anche la carcassa di Giangi
e la sua faccia sgonfia e dolente mi passano a fianco spesso, sebbene
“spesso” sia pur sempre riferito ai tempi dell’eternità. Appaiono anche i
resti della Nonna, mischiati a quelli della spesa e del piano cottura a
gas. Giro dopo giro, eone dopo eone, inizio a raccogliere i pezzi di
tutti, alla meno peggio, scoprendo con sorpresa che posso infilare le
ossa di nuovo al loro posto e recuperare così le nostre forme mortali.
Mi riprometto di cominciare con la testa e il torace, così potrò
comunicare di nuovo con gli altri.
Cercando di non farmi notare, le mie mani molli iniziano il difficile
compito ma mi accorgo (come è stato possibile?) che i rulli di raccolta
sono ormai molto vicini: il prossimo giro orbitale toccherà a noi. Preso
dal panico inizio a ricomporre il tutto alla cieca, visto che la mia testa,
senza collo, tende a cadermi sul petto o a vorticare come un palloncino
su se stessa.
Poco prima della fine dell’orbita ho creato un'unica creatura: un Me­
Giangi­Nonna, tre teste miste, due toraci e quattro gambe. Le braccine
sono moncherini di soli avambracci ma hanno il doppio delle dita.
Ma non c’è più tempo e gioco il mio tiro paraculo. Così di getto,
affidandomi all’istinto che il più delle volte mi aveva messo nei guai.
All’unisono, il mostro multiplo che siamo grida: “Capo, noi cerchiamo
lavoro. C’è ancora posto alla raccolta coi rulli? Abbiamo un buon
curriculum. Va bene anche a tempo determinato...”
Tutta la massa infinita dei detriti si ferma. Il grande cerchio infuocato,
che aveva arso per interminabili eoni, si spegne, gettando il girone
nell’oscurità assoluta.
La voce tuona: “Senza ferie pagate?”
“Certo, volentieri!” rispondiamo con la nostra triplice voce.
“Senza maternità?”
“Come no, senz’altro!” rimarchiamo entusiasti con le manine multi­
dita.
“Senza buoni pasto?”
“I buoni pasto sono per le mammolette!” gridiamo con giubilo agitando
le molteplici gambe.
“Infortuni?”
“Ah, tolto un pezzo se ne mette un altro!” e questa volta ci si guarda
sorridendo fra noi tri­teste.
“Che dunque sia!”
Il buio pesto è scosso da un forte rombo, mentre d’improvviso un getto
gigantesco di lava risputa tutto verso l’alto, fondendolo in un’unica
abnorme polpetta bruciacchiata. Quindi, il nulla.
Quando mi sveglio i led rossi della radiosveglia segnano le 7.00. Sul
comodino c’è una lettera, la fisso per un po’. E’ la lettera di assunzione
temporanea all’Inalca, che la mamma, non so come, è riuscita a farmi
ottenere ieri. Ora ricordo. Accendo la luce, mi stiracchio, taglio una
striscia della lettera, la riempio di tabacco ed erba, e mi rollo la mia
prima canna da occupato. Attaccherò alle 8.00 e devo essere stonato al
punto giusto per sopportarlo.


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