Salvatore Sofia
Natale ad agosto

Quest'anno  voglio  fare  il  Presepe,  per  ricordare  la  mia  infanzia.  Quand'ero 
piccolo  arrivava  il  momento,  di  solito  l'8  dicembre,  in  cui  mio  padre 
predisponeva  il  “telaio  per  il  Presepe”,  con  i  cavalletti  che  reggevano  un 
pannello  di  truciolato  con  un  buco  quasi  al  centro.  Quel  buco  segnalava  il 
posto del laghetto.
Mio  padre  non  è  mai  stato  un  fanatico  del  Presepe,  né  un  alacre  artigiano 
della sua costruzione. Per lui non era un hobby, era una pratica para­religiosa. 
Innanzitutto  lo  chiamava  Presepio,  termine  che  mi  ha  sempre  restituito  un 
surplus  di  arcaismo,  e  per  lui  rappresentava  la  necessità  di  rispettare  una 
tradizione. Con gli anni il “telaio del Presepe” è stato sostituito dal più pratico 
sparecchiatavola in noce, che veniva sgomberato dei suoi soprammobili e via 
via  riempito  dal  rivestimento  e  da  tutte  le  costruzioni,  gli  ingombri  e  i 
personaggi.  Con  l'avvento  dello  sparecchiatavola  andò  perso  il  buco  per  il 
laghetto.
In soffitta ho trovato la vecchia scatola del Presepe di mio padre, con la scritta 
“Presepio” sul coperchio. Era la scatola che conteneva il vecchio Philco14” che 
tenevamo in cucina negli anni della mia infanzia.
Questo pastorello va qui, questo pastorello va qua, e nella capanna – che mio 
padre  voleva  un  po'  bruciacchiata  e  intaccata  dal  fumo  –  nella  capanna 
mettiamo il bue. E poi. E poi mi interrompono, all'inizio ridono ­ “che matto 
che sei, il Presepe ad Agosto...” ­ anche io potrei ridere per la burla, invece mi 
arrabbio,  stizzito.  Ma  soprattutto  perché  non  mi  ricordo  più.  Non  so  come 
continuare a mettere insieme. Da qualche tempo ho cominciato a dimenticare 
il significato di alcune parole, la loro corretta collocazione nella frase, alcuni 
termini sono del tutto spariti dal mio bagaglio lessicale. Mi metto alla prova e 
scrivo quello che mi passa per la mente: rileggendo i periodi mi sembra che 
siano popolati di frasi fatte ed espressioni idiomatiche ripetitive e incoerenti. 
Ho l'impressione di non riuscire a mantenere il filo del discorso. Mettere un 
punto  mette  in  crisi  l'intero  svolgimento  del  pensiero  che  continuamente  si 
accartoccia  su  se  stesso:  ho  una  voglia  improvvisa  di  utilizzare  il  punto  e 
virgola:  avrò  fatto  bene  a  usarlo?  E  i  due  punti  sono  collocati  in  modo 
corretto? Temo di aver utilizzato troppe volte l'aggettivo “corretto” e il verbo 
“utilizzato”. Ma saranno effettivamente aggettivo e verbo? Forme grammaticali 
e  sintattiche  mi  si  confondono  orribilmente  in  testa  prima  che  sulla  pagina. 
Vorrei  ripassare  le  basi  della  grammatica  della  sintassi.  Adesso.  Non  riesco  a 
esprimermi oltre. Ho un attacco di panico, mi manca l'aria ad ogni parola in 
più che scrivo. Non più usare il “che” e neanche le virgolette – questi segni 
grafici  così  abusati,  orribilmente,  anche  nel  linguaggio  verbale.  Così  come  i 
trattini:  me  ne  trovo  tanti  sotto  la  punta  della  penna  e  non  so  collocarli. 
Oddìo,  “collocarli”.  I  pastorelli  del  Presepe  cercano  di  suggerirmi  una 
collocazione,  ma.  Il  “ma”  mi  infastidisce.  Un  tempo  amavo  la  preposizione 
avversativa, era la mia preferita. Come l'anacoluto – che la mia insegnante del 
Liceo  mi  segnalava  sempre  come  errore,  anche  quando  era  innegabilmente 
funzionale alla trasmissione di una precisa sfumatura del pensiero. Avversative 
e anacoluto, due sfumature ripetitive che adesso aborro e detesto. Ho appena 
detto  detesto  con  due  “t”,  “dettesto”,  poi  mi  sono  corretto.  Mi  fermo  e  mi 
metto  alla  prova:  eseguo  con  difficoltà  una  serie  di  semplici  addizioni.  Mi 
diagnostico  una  non  ben  precisata  sindrome  neurologica.  Ma  non  lo  dico  a 
nessuno. Sindrome sarà la parola giusta? “Parola” sarà appropriato?
Per illuminare questo racconto ci vuole un fiammifero. Ne tengo sempre un 
pacchetto  nella  tasca  interna  della  giacca.  Provo  a  cercarlo,  eccolo.  Trovo  il 
pacchetto,  ma  è  tutto  bagnato  fradicio.  Anche  io  lo  sono,  galleggio  sul  pelo 
dell'acqua con i vestiti pesanti che non riesco a sfilare. È notte fonda e sono 
su  un  lago,  forse.  Dovrei  opporre  resistenza,  mi  dimeno,  ma  è  piacevole 
essere  portati  via  dalla  corrente,  se  non  stai  troppo  a  pensarci.  “Lasciati 
andare! Su, lasciati andare!”
Mi  lascio  andare  e  proseguo.  Come  scorre  l'acqua,  come  mi  porta  oltre,  in 
silenzio, com'è buia questa notte senza luna, com'è dolce quest'acqua. Come 
accelera,  come  scende  veloce,  come  scroscia  adesso.  Riesco  per  un  soffio  a 
non cadere di sotto, che vertigine! Riesco ad aggrapparmi a un bordo. L'acqua 
precipita sotto, entra come dentro un grande scolo che porta via tutto quello 
che riesce a strappare dalla sua sede. Sono nella buia soffitta di casa dei miei 
nonni.  L'acqua  non  ha  riguardo  per  gli  oggetti  che  trova  nel  suo  passaggio: 
libri, sedie, fogli, carte geografiche, vecchi quadri, il triciclo di mia sorella, le 
vecchie  foto  di  famiglia  raccolte  negli  album,  quelle  sfuse,  la  maggior  parte, 
ordinate  in  eleganti  scatole  da  scarpe.  Un'acqua  placida,  ma  risoluta. 
Irrispettosa e menefreghista. Precipita di sotto e con essa tutti gli oggetti via 
via più grandi e pesanti che non riescono ormai a resistere alla corrente. Io 
resisto,  mi  viene  semplice.  Tutto  precipita  e  io  resto  su  un  bordo  di 
pavimento, su una parete che viene su dal basso. C'è un buco in mezzo alla 
stanza e dentro finisce tutto quello che l'acqua riesce a portare con sé. Ovvero 
tutto ciò che vedo.
Guardo in basso, e io sono lì. Mi piove sulla testa, lo vedo bene. Sono steso su 
un letto senza la minima idea di essere sopra di me. Provo a chiamarmi, ma 
non  mi  sento.  “Alza  la  testa,  sono  qui!  Spostati”.  Come  se  nulla  stesse 
accadendo resto impassibile, seduto in un letto dalle candide lenzuola, in una 
luce al neon. Non sembro preoccuparmi di tutta l'acqua che mi finisce sopra, 
degli oggetti e dei mobili che pericolosamente stanno precipitando. Sembro 
calmo.  Se  non  mi  preoccupo  io,  allora  nemmeno  io  mi  devo  preoccupare. 
Perché dovrei? La stanza in basso sta sprofondando. Vedo la scena giù come da 
un buco della serratura. Tanta luce e contorni sgranati.
Quanta  acqua,  quanto  scorre!  Non  accenna  a  placarsi,  lenta  e  solenne.  A 
precipizio, come da una cascata. Ormai la soffitta è completamente vuota. Io 
resto  seduto  sul  bordo  superiore  della  stanza,  che  ormai  sembra  un  pozzo 
dalle  pareti  altissime.  Quassù  tutto  e  buio,  mentre  sotto  c'è  una  luce 
fastidiosa. Lei mi prende per mano e mi fa scendere dal letto. Mi siedo su una 
sedia mentre lei cambia le lenzuola. Siamo stati insieme per anni e adesso mi 
sta accanto per assicurarsi che tutto quello che ho in testa venga smaltito nel 
modo corretto. Emozioni buone in un apposito cassonetto, emozioni cattive 
in un altro, errori in un altro, rimpianti in quello accanto, rimorsi e sensi di 
colpa tra i rifiuti speciali. Lei, senza saperlo, sta lì a presiedere allo stoccaggio. 
A dire il vero non mi ricordo il suo nome, provo, provo a ricordarlo, ma non 
mi viene in mente neanche un'ipotesi. Però la sento così vicina che mi rivolgo 
a lei con un tu. Allora ti chiamo, ma tu non guardi mai in alto. Ti chiamo e 
invece di guardarmi tu mi guardi, ma laggiù. Dove io non posso sapere che sei 
tu a guardarmi.
Provo a trattenere tutto ciò che ho e tutto ciò che so. Ma tutto, proprio tutto è 
precipitato di sotto. E di sotto non so cosa farmene. È come avere l'acqua in 
casa  e  il  rubinetto  fuori.  Io  sono  fuori  e  più  apro  il  rubinetto,  più  l'acqua 
scorre dentro.
I ricordi della mia famiglia, le emozioni di tutta la mia vita, la storia del nostro 
Paese,  tutte  le  cose  buone  fatte  insieme  per  essere  felici  insieme,  tutti  gli 
errori commessi sono precipitati dove non posso utilizzarli. Vorrei lasciarli in 
eredità, ma non posseggo più niente. Oltre questa consapevolezza cristallina e 
disarredata non mi resta nulla. So come sto di sotto, mi vedo bene, ma non 
posso fare più niente per cambiare la mia condizione, perché la mia volontà è 
quassù e tutti i miei ricordi sono giù, dove non sono più fatti di una sostanza 
che riesca a veicolare.
L'acqua  adesso  smette  di  scorrere,  sento  ancora  il  culo  bagnato,  ma  il 
pavimento della soffitta si sta asciugando già. Le pareti della stanza in basso si 
sono ritirate e adesso il pavimento della stanza è a un saltello da me. Io sono 
solo a un metro da me, forse anche meno. Mi sembra di essere a letto, in un 
letto sopra il letto, del quale il letto e la stanza sotto sono solo il pavimento 
emotivo.
Tu  mi  accarezzi  i  capelli  e  mi  inviti  a  tornare  a  stendermi,  assecondo  il  tuo 
invito come se arrivasse direttamente dal mio cervello. Adesso non sento più 
il culo bagnato.
Provo a chiamarti, ma non mi senti. Anche laggiù mi rivolgo a te, ma tu pensi 
che stia parlando con un'altra persona. Effettivamente è così, perché la te con 
cui parlo è andata via molti anni fa e tu non credi di essere quella persona. Ed 
io laggiù non so che tu sei tu e mi rivolgo a te senza sapere che effettivamente 
sei la persona con cui vorrei parlare.
Da quassù sento benissimo la tua voce e le tue parole, mentre le mie di laggiù 
restano mute. Con un telecomando provo ad alzare il volume, ma si alza solo 
la  tua  voce  insieme  ai  rumori  d'ambiente.  Mentre  la  mia  continua  a  essere 
muta. Non so più come parlarti. Non riesco a dirti che il momento più bello 
della giornata è quando spegni il neon e resti nella penombra nella stanza.
Seduto sul bordo del buco nel pavimento della soffitta, che ormai è solo un 
gradino sopra il letto, ma aperto su un'oscurità conciliante. Tu spegni il neon 
e te ne stai al mio fianco. Io so che ci sei, ma non so che quella sei tu, non ti 
riconosco.
Provo ad accendere i fiammiferi, il primo, un altro, un altro, sono ancora tutti 
bagnati, ecco che uno prende fuoco e illumina la stanza. Mi sporgo in giù per 
guardarci meglio alla luce di questa luce più dolce. Io con gli occhi aperti, tu 
appisolata  dopo  la  lunga  giornata  di  assistenza.  Tieni  un  libro  sulle  gambe. 
Provo a leggere il titolo, ma le parole sono segnacci incomprensibili. Mi sforzo 
ma  non  mi  sembrano  neppure  grafemi.  Non  voglio  svegliarti,  ma  vorrei 
parlarti, perché adesso tutto a un tratto un po' di ricordi e di concetti mi sono 
tornati in mente.
Il fiammifero si consuma velocemente e comincia a ustionarmi i polpastrelli, 
ma  continuo  a  tenerlo  saldo  tra  l'indice  e  il  pollice  della  mano  destra.  Non 
voglio mollarlo, perché so che altrimenti si spegnerebbe.
Ti guardo mentre dormi, mi guardo mentre fisso la parete.
Resisti, resisti!
Un dolore lancinante arriva dalla radice delle unghie a quelle dei capelli.
La fiammella si spegne.
E non ci siamo più.